IL MONDO E' COME UNO SPECCHIO

Osserva il modo in cui reagisci di fronte agli altri. Se scopri in qualcuno una qualità che ti attrae, cerca di svilupparla in te stesso. Se invece osservi una caratteristica che non ti piace, non criticarla, ma sforzati piuttosto di cancellarla dalla tua personalità. Ricorda che il mondo, come uno specchio, si limita a restituirti il riflesso di ciò che sei.

venerdì 28 giugno 2013

USTICA: SCENARIO DI GUERRA CON GHEDDAFI IN VOLO E MIG 23 abbattuto sulla SILA

VOLO IH870 – 27 LUGLIO 1980

Il 27 GIUGNO 1980 parte da Bologna, dall'aeroporto Guglielmo Marconi, il volo Itavia 870 Bologna-Palermo; sono le 20.08, due ore dopo l'orario previsto. L'arrivo è programmato per le 21.15. Non ci sono problemi: il DC 9 viaggia regolarmente, con a bordo 81 persone, 64 passeggeri adulti, 11 ragazzi tra i due e i dodici anni, due bambini di età inferiore ai 24 mesi e 4 uomini d'equipaggio. Durante il volo non é segnalato nessun problema, ma poco prima delle 21 del DC 9 si perdono le tracce radar. La mattina dopo tutti i giornali riportano notizie della tragedia e si cominciano anche a fare le prime ipotesi sulle cause del disastro. Passano i giorni; la lettura dei giornali ci permette di capire le prime inquietudini: “Il silenzio delle autorità alimenta i sospetti di una collisione. Forse i radar della Nato hanno “visto” la tragedia del DC 9 scomparso in mare”, “Il DC 9 Itavia aveva strutture logore oppure é stato investito da ‘qualcosa’ ”.
Strage di Ustica, orror di Stato
Le fogne sono più salubri di questo Stato che puzza di marcio ben oltre il midollo. Ammesso che un midollo lo abbia, questo insieme di autorità, eccellenze, alte burocrazie e, udite – udite, servitori dello Stato che come Arlecchino sono soliti servire più padroni.
Uno Stato che invece di inchinarsi di fronte alle vittime di Ustica le oltraggia con trucchetti da prestigiatore di oratorio dilatando, allontanando, abbandonando l’unica cosa che, a fronte della colpevole inattività di tutti questi anni, potrebbe fare: pagare i risarcimenti e scusarsi. E’ dell’ultima ora la notizia che l’Avvocatura di Stato vorrebbe, con un ricorso, sottrarre il legittimo diritto al risarcimento a cui ognuna delle parti lese aspira – come unica e inespressa speranza – a fronte della mortificazione e del dolore di non avere, dopo 33 anni, disvelate le ragioni di quel disastro.
Nel nulla si sono dilaniati 81 uomini e donne secondo questo Stato cialtrone e nel nulla dovrebbero defluire anche le aspettative di chi, in attesa di una parola, ha visto la polvere della ignavia e della codardia accumularsi anno dopo anno. Uno Stato che non è capace di tutelare, in tempi di pace, i propri figli e che, peggio ancora, non è capace in tempi di pace di punire i colpevoli merita ampiamente il massimo disprezzo.
Mi è sempre più difficile trovare una ragione profonda per difendere la forma Stato, l’astrazione concettuale che, gioco forza, pone ai vertici delle decisioni, uomini e donne sottraendoli ad ogni principio di responsabilità. Al contrario li esalta, come accaduto con Andreotti in occasione della sua morte. Riducendo colpe e condotte a pura anneddotica con cui intrattenere il pubblico televisivo o i lettori del giornale. Un paese che non sa processare la propria classe dirigente, e non mi riferisco ai tribunali, ma ci balzella intorno per prebende e privilegi destina all’oblio l’unico orgoglio e l’unica dignità che presupporrebbe l’essere cittadini: titolari di interessi prioritari.
La forma Stato, per come la conosciamo, lo nega. Non solo nelle dinamiche sociali ma anche nella ricerca della giustizia.

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Intrigo Internazionale

Il limite della verità giudiziaria
Tra i primi anni Settanta e tutti gli anni Novanta, Priore ha istruito molti dei processi per violenza politica e terrorismo, fra i più importanti della storia giudiziaria italiana. Si è occupato delle stragi compiute a Ustica e dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II. Ha letto “Il misterioso intermediario”, la biografia di Igor Markevic, il direttore d’orchestra di origine russa coinvolto nella vicenda Moro. Benché le inchieste su Moro si fossero concluse, Priore aveva continuato a interessarsi alla figura di Markevic, personaggio complesso, amico di Francois Mitterand e intimo della corona britannica, di casa non solo a Parigi e a Londra, ma anche a Tel Aviv, Praga e Berlino Est. Markevic era in contatto fin dalla seconda guerra mondiale con elementi di servizi segreti e con ambienti artistici e intellettuali di mezzo mondo.
Le stragi indiscriminate, da Piazza Fontana a quella di Ustica e Bologna; e poi il terrorismo selettivo, che ha toccato il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. Una lunga fase della storia italiana, a partire dal 1969, è stata profondamente segnata dalla violenza politica, con centinaia di morti e migliaia di feriti: perché è successo? E perché proprio in Italia? Priore non ha mai smesso di cercare una risposta a questi interrogativi. Ha letto e riletto la montagna di carte custodite nei suoi archivi. Ha rintracciato questo o quel documento. Ha rivisto gli appunti dei suoi numerosi incontri con personaggi al corrente dei fatti, italiani e stranieri: capi di servizi segreti, uomini politici, ex terroristi. Ha cercato nuove testimonianze. Ha letto ogni libro su ciascuno dei temi toccati dalle sue indagini. La magistratura non è mai riuscita ad arrivare fino in fondo nella ricerca della verità perché il lavoro dei giudici ha sempre dovuto fare i conti con ostacoli insormontabili, depistaggi, prove sottratte, informazioni negate, testimoni scomparsi. La richiesta di giustizia e verità è entrata spesso in conflitto con la ragion di stato. Per diversi decenni, la storia delle inchieste sui fatti di terrorismo è stata condizionata da due, a volte inconciliabili, degli interessi dello Stato: quello di garantire la legalità punendo i responsabili; e quello di impedire che la garanzia di legalità turbasse interessi superiori dell’Italia, le sue relazioni con altri paesi e gli equilibri internazionali. Nelle sue inchieste Priore individua una sorta di terzo giocatore, con un proprio interesse a soffiare sul fuoco delle tensioni interne italiane. Ricostruisce, per esempio, le guerre sporche combattute tra l’asse franco-inglese contro l’Italia per l’egemonia nel Mediterraneo e per il controllo delle fonti di approvvigionamento energetico nella fascia nordafricana e mediorientale. Nel contesto della guerra mediterranea è possibile anche penetrare altri due misteri tra i più fitti della storia italiana del dopoguerra: la strage sul cielo di Ustica, dove si combatté una vera e propria battaglia aerea, e quella compiuta subito dopo alla stazione di Bologna.
È da secoli che il Mediterraneo non è più un mare di pace. Oggi più che mai, attraversato com’è da conflitti tra stati, guerre civili e terrorismi transnazionali. Il Mediterraneo fu un mare di pace solo quando le coste asiatiche e quelle africane facevano parte di uno stesso impero, quello romano, che dettò un’unica legge, diffuse eguali costumi e, dall’Editto di Costantino, impose un’unica religione. Poi venne l’islam e questa unità si spezzò. Nell’Europa mediterranea si crearono forti insediamenti islamici. Gli insediamenti islamici tuttora esistenti a macchia di leopardo nei Balcani, rappresentano l’origine di tante conflittualità etniche e religiose. Perché persiste il vecchio progetto di costituire in quell’area il primo stato islamico in Europa. “Roma che sarà presa a fil di spada”, come si legge in tanti testi del fondamentalismo.
In Italia gli odi e le violenze appaiono quelli propri delle guerre civili. Anche in Spagna e in Grecia, per citare due esempi a noi vicini, ce ne sono state. La violenza è diffusissima nel nostro paese: è politica, sindacale, sociale. È il segno che ci connota. Negli altri paesi non ci si spinge mai all’eliminazione fisica. Da noi, una persona di diversa ideologia si trasforma immediatamente nel nemico. Negli altri paesi dell’Occidente, invece, il conflitto è il sale della democrazia perché c’è coesione sugli interessi essenziali.  Una tradizione di conflitti che si è rafforzata nel cuore del XX secolo a causa della nostra situazione di paese di frontiera, dove durante la guerra fredda si sono scontrate le grandi ideologie del Novecento e addirittura fronteggiati i blocchi militari dotati di arsenali nucleari.
Dal 1969 in poi, invece, la situazione sembra essere sfuggita di mano ed è degenerata sino a toccare il picco del caso Moro. In quei dieci anni è accaduto di tutto: attentati a persone, senza contare la violenza di piazza. Perché proprio in quel decennio?
La chiave per comprendere cos’è accaduto in quegli anni non si può trovare solo nelle sentenze della magistratura, come affermato dal giudice Rosario Priore:
«Come giudice, ho cercato di avvicinarmi il più possibile alla verità legata alla ricostruzione materiale dei fatti. Però, oltre a quella giudiziaria, esiste una verità politica. E una ancora più alta: la verità storica. Il magistrato ricostruisce i fatti cercando i colpevoli, in modo tale da soddisfare le esigenze di chi deve emettere le sentenze. Ma noi, negli anni di piombo, eravamo costretti a operare sotto la pressione degli eventi che si susseguivano a un ritmo impressionante. Ricordo che in soli tre giorni, tra il 16 e il 19 marzo 1980, rimasero vittime di attentati addirittura tre magistrati. Eppure le nostre inchieste sul terrorismo hanno permesso di ricostruire, a grandi linee, l’insieme dei fatti. Poi andava fatto un lavoro per ricostruire il contesto o i contesti che avevano determinato quei fatti. Ma questo non è un lavoro proprio del giudice. Un lavoro che è mancato.
Per quanto riguarda il terrorismo rosso, nella stragrande maggioranza dei casi, i colpevoli sono stati individuati e le loro organizzazioni smantellate. Per le stragi invece no: l’impunità è la regola.
Quello che ho detto vale anche per i terrorismo di matrice nera: diverse organizzazioni eversive sono state disarticolate. A destra lo smantellamento è stato più efficace che a sinistra, dove il livello intellettuale di guida e di direzione resta tuttora nell’ombra. Quanto alle stragi, quelle di matrice internazionale non sono rimaste impunite: fortunatamente siamo riusciti ad assicurare alla giustizia non solo gli esecutori, ma abbiamo colpito anche a livelli alti, benché con pene che, come spesso accade nel nostro paese, si sono fermate sulla carta. Quando parlo di stragi mi riferisco, per esempio, alla strage compiuta nell’aeroporto di Fiumicino dai terroristi palestinesi di Settembre nero nel dicembre 1973, e a quella compiuta nello stesso aeroporto dodici anni dopo, nel dicembre 1985; nonché a tutte le altre che hanno colpito in modo particolare Roma negli anni Settanta e Ottanta».
All’epoca non si parlava ancora di matrice islamica, perché si trattava di formazioni terroristiche laiche, nel senso che non si rifacevano assolutamente a ideologie religiose. Si appoggiavano a seconda delle esigenza a Mosca o a Pechino. Su quel terreno si è riusciti a fare molti progressi, grazie anche all’aiuto di altri paesi europei.
Le stragi compiute tra il 1969 e il 1974, e attribuite alla destra neofascista, sono stragi dalla matrice ancora incerta. E la stessa cosa si può dire, andando avanti negli anni, per la strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980 e per la tragedia di Ustica dello stesso anno. anche se per quest’ultima appaiono squarci di luce che potrebbero consentire di illuminare il contesto internazionale di quegli anni. Non c’è ancora una verità storica. Anche la verità giudiziaria sembrerebbe essere  molto traballante. Era il tempo in cui certe procure prima elaboravano una teoria, da cui poi facevano discendere le interpretazioni dei fatti, le connessioni, la realtà tutta. È così. Sul terrorismo nero in sé per sé, come su quello rosso, si è fatta luce più che a sufficienza. Gli organigrammi dell’estrema destra eversiva sono stati ricostruiti e perseguiti con la stessa efficacia con cui sono stati colpiti quelli di sinistra. Sulle stragi, invece, è ancora presto per scrivere la parola fine, almeno dal punto di vista della verità storica.
C’è un contesto nazionale che determina, in un certo senso, la nascita delle organizzazioni eversive di destra e di sinistra. Però esiste anche un contesto internazionale, anzi sul piano internazionale probabilmente esistono più contesti che influiscono sulle nostre vicende interne, o che comunque le sfruttano a dovere.
Qualcuno, dall’estero, ha soffiato sul fuoco della violenza italiana Qualcuno si è avvantaggiato della debolezza del nostro paese e delle nostre istituzioni. Il nostro è un paese con strutture democratiche molto giovani e per questo anche deboli. Mentre altri paesi hanno saputo reagire con maggiore fermezza ai fenomeni di terrorismo, ad esempio la Germania e la Francia, liquidandoli in breve tempo, la fragilità delle nostre strutture ha incoraggiato l’ingerenza da parte di istituzioni straniere nei nostri conflitti interno. Ad esempio i servizi segreti che avevano interesse a giocare determinate partite sul nostro territorio, ovviamente a tutela di interessi propri o dei blocchi a cui appartenevano. La grandi stragi compiute in Italia non sono opera di bande di ragazzi, ma grandi operazioni politiche progettate nelle capitali di paesi che avevano interesse a tenerci sotto scacco.
La sera che volevano uccidere Gheddafi
Parliamo ora di un’altra delle inchieste di Rosario Priore, quella sulla strage di Ustica, che sembra avocare scenari del tutto diversi da quelli descritti finora.
Gli inquirenti hanno raccolto elementi e informazioni che portano alla verità. Una verità però indicibile. Affermata a mezza bocca anche dalle più alte istituzioni. Ma la si dice e poi quasi la si ritratta. Ci sono colpe e responsabilità dirette di più paesi. Per non parlare di tutti gli altri che sanno ma che non possono o non vogliono dire. Insomma, la strage di Ustica è un caso coperto dall’omertà internazionale, che è ancora più impenetrabile di quella di una semplice cosca mafiosa siciliana o di una ‘ndrangheta calabrese. L’ipotesi di un cedimento strutturale dell’aereo fu esclusa quasi subito dai periti. Quella di una bomba esplosa all’interno dell’aeromobile, nel vano della toilette, è stata sostenuta a lungo, ma è poco credibile. Le parti principali di questo vano sono state ripescate e su di esse non c’era alcuna traccia di esplosione. Non è sostenibile, anche se i periti non hanno mai raggiunto l’unanimità. Le ripetute spaccature all’interno dei collegi peritali, hanno suscitato il sospetto di ingerenze esterne, da parte di ambienti interessati a impedire l’accertamento della verità. C’è una quarta ipotesi che ha un certo grado di attendibilità, quella della near collision. L’esplosione del DC-9 fu provocata da una causa esterna. I periti dell’Aeronautica militare hanno sostenuto che l’aereo Itavia, quella sera, a quell’ora, in quello spazio, volasse solo. Ma in realtà si creò una situazione quasi di affollamento lungo la rotta del velivolo civile. Tale affollamento fu notato nei centri radar controllati dai militari, ma fu subito nascosto per poi essere “dimenticato”. Qualcuno temeva che quella situazione complessa emergesse. Non era il DC-9 Itavia l’obiettivo, ma altri aerei che in quel momento volavano nella sua scia per proteggersi dalle intercettazioni dei radar. Questo è stato appurato. E si può anche affermare con certezza che gli attaccanti erano aerei militari, aerei da caccia. Il caccia che seguiva il DC-9 lungo la traiettoria parallela, non appena lo raggiunse, virò di novanta gradi da sud a est, come per puntarlo, e si dispose in posizione d’attacco, controsole, in modo da non essere visto dai piloti dell’aereo civile. In prossimità della Toscana, sui radar dei centri a terra, comparvero da ovest e da est due caccia militari, che però sparirono quasi subito. Si trattava di altri due velivoli, forse quelli che dovevano prendere la scia del DC-9 per sfuggire alle intercettazioni radar. E questo potrebbe spiegare la ragione per la quale scomparvero all’improvviso. Poco dopo apparvero tracce di un altro aereo militare, un Awacs che si trovava sul Tirreno, tra la Liguria e la Toscana. L’Awacs è l’aereo che viene usato solitamente in operazioni di guerra o durante esercitazioni militari. Di sicuro era americano, perché quel tipo di aereo ce l’hanno in dotazione solo gli Stati Uniti, che a volte lo concedono in uso alla Nato. Era partito con ogni probabilità da una base americana situata nel centro della Germania Federale, quella di Ramstein.
Erano in volo solo due caccia italiani dello stormo di Grosseto. Un semplice addestramento per un allievo pilota.
La presenza di un Awacs era anomala perché erano le 21. E gli Awacs utilizzati per l’addestramento normalmente tornavano alla base tedesca nel pomeriggio. Anche in tempi di pace, gli aerei militari, persino quelli italiani e quelli di paesi amici e alleati, mentre si esercitano o si trasferiscono da una base all’altra, fanno di tutto non solo per non farsi identificare, ma anche per non farsi rintracciare dai radar. Ci riescono compiendo lunghi tratti nascosti dietro o sotto la fusoliera di velivoli civili. Il radar non è uno strumento così raffinato da riuscire a distinguere oggetti prossimi o nascosti: due velivoli vicini li identifica come uno solo. All’improvviso almeno uno dei due caccia superò il DC-9, virò di novanta gradi e si dispose in posizione d’attacco. Dopo pochissimo venne rilevata una nuvola di detriti, quelli del DC-9 esploso. Da quella nuvola emersero le tracce di due aerei, uno che si allontanava a tutta velocità verso est, l’altro che continuò la sua rotta verso sud. La Federal Aviation Army americana, esaminati i tracciati radar, arrivò a queste precise conclusioni: il DC-9 era in volo da nord verso sud; all’improvviso apparve da ovest un oggetto non identificato in avvicinamento; poco dopo, ma senza che si verificasse alcuna collisione, il DC-9 esplose, mentre l’oggetto non identificato continuò il suo volo verso est apparendo subito dopo oltre la nuvola di detriti. La storia si poteva chiudere con il suo responso, a pochi mesi dall’evento, e invece si è protratta per tutti questi anni.
I due caccia dello stormo di Grosseto, pilotati da Mario Naldini e Ivo Nutarelli, intercettarono il DC-9, lo affiancarono e lo seguirono fino all’altezza di Grosseto. All’improvviso si accorsero che qualcosa non andava e lanciarono alla base il segnale di allarme. Lo fecero proprio mentre il DC-9 si stava avviando verso Ustica. A quel punto i due caccia tornarono subito verso l’aeroporto di Grosseto. Forse perché così era stato ordinato loro di fare. Erano già stati chiamati a testimoniare ma, poco prima che il giudice Priore potesse ascoltarli, morirono nell’incidente di Ramstein. Su quell’incidente la magistratura tedesca aprì un’indagine, però i risultati non ci vennero mai comunicati.
L’obiettivo, quella sera, con ogni probabilità era un altro: l’aereo che in quel momento volava coperto dal DC-9, per proteggersi dalle intercettazioni radar. Forse un Mig libico, lo stesso che poi precipitò sulla Sila. Secondo un perito tedesco, esperto in missili ed esplosivistica, fu abbattuto, perché sulla fusoliera c’erano i segni dei colpi ricevuti. Ma si è mai potuto utilizzare appieno la sua esperienza perché quasi tutti i resti del Mig furono immediatamente restituiti alla Libia. Testimonianze false, distruzione di prove, testimoni scomparsi. Nastri con tracciati radar tagliati nei minuti di maggior interesse o fatti addirittura sparire. Per non parlare dei registri, perché i tracciati radar si conservano anche sul cartaceo: in alcune basi non sono stati trovati nemmeno quelli. In altre è successo di peggio: sono stati trovati i registri, ma con fogli mancanti, ed erano proprio quelli della sera del 27 giugno 1980. Tagli netti, fatti addirittura con la lametta.
E poi i testimoni scomparsi. Troppe morti improvvise, almeno una decina. I due piloti di Grosseto nell’incidente di Ramstein. Il giovanissimo capitano della base di Poggio Ballone morto d’infarto pur non soffrendo di alcuna cardiopatia: quella sera era nella sala radar  e aveva visto sui monitor la stessa scena alla quale avevano assistito Nutarelli e Naldni. Il maresciallo di quella stessa base morto suicida, anche lui in servizio a Poggio Ballone la sera del 27 giugno 1980: aveva commesso l’impudenza di rivelare ai familiari di aver assistito a uno scenario di guerra aerea. Infine il maresciallo che era in servizio nella sala radar di Otranto, con visione sulla Sila, quando cadde il Mig libico: anche lui morì impiccato poco prima di venire a deporre. Evidentemente c’era un progetto che aveva come obiettivo, quasi vitale, quello di impedirci di capire che cos’era successo nel cielo di Ustica. Si deve supporre l’esistenza di un corpo capillarmente organizzato dice Rosario Priore:
«Ricordo solo gli sforzi per individuare chi era presente nella strategica sala radar dell’aeroporto di Ciampino, la sera della strage. Ci avevano detto che non esisteva più alcuna registrazione del personale in servizio. Sa come ci siamo riusciti? Del tutto casualmente, sulla base dei buoni caffè che venivano distribuiti a chi faceva il turno di notte: abbiamo trovato le ricevute del caffè e così abbiamo potuto ricostruire l’organigramma delle persone che avevano lavorato quella notte. L’Aeronautica aveva costituito un ufficio Ustica che ufficialmente aveva il compito di aiutarci nel nostro lavoro, di venire incontro alle nostre esigenze; e un Ustica Desk era stato istituito anche dagli americani. Di conseguenza se c’era qualcuno che voleva ostacolare l’accertamento della verità, poteva farlo con efficacia».
C’era un groviglio di verità indicibili che nascevano dalla nostra politica mediterranea, in particolare verso la Libia. Ma soprattutto nasceva dall’irritazione che quella politica provocava nei nostri alleati europei. Se quelle verità fossero venute pubblicamente a galla, non sarebbero rimaste prive di conseguenze. L’attacco militare nel cielo di Ustica era diretto contro un aereo che si sapeva sarebbe passato proprio di lì. Il sistema Nadge, la rete radar che proteggeva i paesi europei Dell’Alleanza atlantica, nel tratto italiano aveva dei buchi, delle zone d’ombra. E quei corridoi erano noti ai libici, che potevano utilizzarli per il passaggio dei loro aerei militari per non potendolo fare, perché aerei militari di un paese non Nato. Se fossero stati individuati, il sistema li avrebbe automaticamente definiti nemici da abbattere. In quel periodo, tra l’altro, molti ex ufficiali dell’Aeronautica italiana erano andati in congedo e avevano messo a disposizione dei libici tutta la loro esperienza.
I libici utilizzavano sistematicamente quei corridoi. Sia a scopo civile sia a scopo militare, per arrivare fino al cuore dell’Europa. E succedeva perché i libici avevano un rapporto privilegiato con l’Italia. I loro aerei si recavano spesso in Jugoslavia per riparazioni, oppure a Venezia, dove noi fornivano all’Aviazione libica tutta l’assistenza di cui aveva bisogno. In quello stesso mese di giugno 1980, poco prima dell’esplosione del DC-9, nelle officine di Venezia, accanto agli aerei ufficiali del presidente statunitense e di quello francese, lì per un summit internazionale, c’erano anche dei velivoli libici che, in barba ad ogni embargo, noi trasformavano in mezzi da trasporto per paracadutisti. Personaggi di primo piano, sceglievano molto spesso di viaggiare per quelle zone d’ombra su aerei civili. Tutto ciò per ragioni di sicurezza.
Sembra che il bersaglio quella notte fosse proprio il leader libico Gheddafi. Nei piani di volo conservati presso la nostra Aeronautica, quella sera era previsto un volo con vip a bordo da Tripoli a Varsavia. Il leader libico, avvertito da qualcuno dell’imminente pericolo, all’altezza di Malta cambiò rotta per tornare in Libia.
Dunque i caccia libici provenienti da nord volavano sotto la scia del DC-9 per andare a prendere Gheddafi che stava arrivando da sud. In definitiva vennero abbattuti mentre Gheddafi si salvò perché avvertito del pericolo. Il capo dei servizi segreti libici era di casa a Roma e nel Sismi (il nostro servizio segreto dell’epoca); ecco come ricevette la notizia del pericolo imminente.
Chi voleva uccidere Gheddafi?
L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che all’epoca era presidente del Consiglio, ha detto qualcosa in proposito. Riferendo informazioni provenienti dall’interno dei nostri servizi, ha parlato esplicitamente di una responsabilità francese. A quel tempo, e nel Mediterraneo, solo due paesi erano in grado di compiere un’operazione militare di quel tipo: gli Stati Uniti e la Francia.
La Francia aveva portaerei nel Tirreno e basi a terra in Corsica. La responsabilità dell’amministrazione americana dell’epoca sarebbe da escludere. Primo perché ne era a capo il democratico Jimmy Carter, che al tempo manteneva rapporti con la Libia; addirittura la riforniva di armi. Secondo perché gli americani ci aiutarono nell’inchiesta molto più degli italiani. Sicuramente sapevano quello che era accaduto, ma non vollero spingersi oltre.
La stessa Unione Sovietica, sarebbe stata in grado di vedere quello che stava accadendo su Ustica. Ma anche i sovietici, si limitarono a risponderci che loro non avevano elementi utili.
Gli americani hanno fatto pressione sugli italiani affinché dicessero la verità. In questo modo avrebbero discolpato totalmente gli Washington da accuse durissime diffuse nella pubblica opinione.
Durante l’inchiesta sono state chieste informazioni anche ai francesi. Ma ci fu apposta una chiusura totale. In tutte le epoche e da tutti i governi. Sia da Valéry Giscard d’Estaing sia da Francois Mitterand. Persistendo nella tutela assoluta dei segreti di stato. Poi la notizia che l’operazione partì dalla portaerei francese Clemenceau, che si trovava a sud della Corsica e aveva la copertura radar della base a terra di Solenzara. E infine la testimonianza del vice di Carlo Alberto Dalla Chiesa: il generale Niccolò Bozzo. Che aveva segnalato un intenso traffico aereo in partenza verso sud dalla Corsica. Si trovava in vacanza con il fratello e la famiglia sull’isola francese, a due passi da Solenzara, ed era in un albergo la cui finestra dava proprio sulla base aerea. Disse che quella sera, fino a notte inoltrata, ci furono continui decolli e atterraggi di caccia militari, esercitazioni a cui partecipavano squadroni di più paesi europei. Ci fu detto che la base aerea di Solenzara chiudeva alle 17 e che quindi non avevano registrazioni di voli né di dati radar oltre quell’ora. E inoltre che la portaerei Clemenceau, quel giorno e quella notte, si trovava nel porto di Tolone. Quando le autorità di una grande potenza come la Francia ti danno risposte ufficiali di questo tipo, non puoi fare che due cose: o ne prendi atto, e quindi escludi ogni sua responsabilità; o pensi che sia false ma devi fermarli lì. Una magistratura nazionale non ha certo il potere di procedere all’interno di un altro stato: cozzerebbe contro i principi fondamentali del diritto internazionale.
Gheddafi era considerato da molti un elemento pericoloso. Aveva ambizioni egemoniche sull’intero continente africano e quindi finiva per scontrarsi con le potenze europee che conservavano forti interessi in quell’area. A cominciare dalla Francia, che vedeva minacciata la propria in quell’area strategica per i suoi interessi nazionali. I libici, per attaccare i convogli nemici, sentirono il bisogno di avere un’Aeronautica ben dotata e ben addestrata dai nostri ufficiali in congedo, e con caccia in perfetta efficienza. Gli italiani avevano fatto sapere ai libici dov’erano i buchi radar della nostra difesa aerea perché potessero utilizzarli senza essere rintracciati dalla Nato.
L’Italia, appoggiando la Libia, era di fatto in conflitto con la Francia. Non era solo il Ciad il fronte caldo. Qualche tempo dopo l’ascesa al potere, Gheddafi rivolse anche un appello agli abitanti dell’isola della Réunion, protettorato francese, perché costituissero un movimento di liberazione. Nel gennaio 1980 ci fu un gravissimo episodio con la Tunisia. Fuoriusciti tunisini addestrati in Libia invasero e occuparono il centro minerario di Gafsa, con l’obiettivo di rovesciare il governo francofilo di Habib Bourguiba. La rivolta fallì perché la popolazione rimase indifferente. La Libia di Gheddafi si muoveva in tutte le direzioni. Perseguiva una vera e propria politica di espansione imperialistica. Senza contare l’appoggio che Tripoli forniva alle organizzazioni terroristiche di mezzo mondo. E quindi finiva per urtare gli interessi di molti paesi, non solo della Francia.
Chi aveva progettato l’assassinio di Gheddafi voleva dare una lezione anche all’Italia. Se l’Italia era dietro Gheddafi e ne sfruttava mire e politiche, è ovvio che fosse così. È anche vero che i rapporti tra Italia e Libia in quel 1980 non erano così idilliaci. In quell’anno si era aperto l’ennesimo fronte di tensione tra noi e il governo di Gheddafi. Dopo l’indipendenza conquista da Malta, Gheddafi puntò gli occhi sull’isola, entrando in conflitto con il governo maltese, sostenuto dagli italiani. La tensione raggiunse livelli molto elevati proprio nel primo semestre del 1980. I libici sospesero le forniture petrolifere e si fecero assai minacciosi, costringendo il governo maltese a chiedere la protezione militare dell’Italia: l’accordo tra Roma e Malta fu siglato il 2 agosto 1980. Che è anche la data della strage alla stazione di Bologna. Una coincidenza impressionante su cui non si è indagato fino infondo. Anche se non pochi hanno sostenuto una relazione tra i due eventi.
Pericoloso Gheddafi lo era davvero e da diverso tempo. Un problema tanto serio da essere risolto anche attraverso la sua eliminazione fisica. Il termine eliminazione lo aveva già usato anche in un suo libro il presidente della Repubblica francese che dopo fu incaricato di redigere la Costituzione europea: Valéry Giscard d’Estaing.
L’operazione scattò il 27 giugno perché allora Gheddafi era sicuramente più vulnerabile. Tra il 1979 e i primi sei mesi del 1980 accaddero fatti che contribuirono a rendere tesa la situazione internazionale. Alcuni in particolare avevano indebolito la posizione di Gheddafi. Negli Usa, nel 1980, erano iniziate le primarie per la corsa alla Casa Bianca tra il presidente uscente, il democratico Jimmy Carter, e il suo rivale repubblicano Ronald Reagan.
Carter, che aveva chiuso un occhio di fronte alle forniture militari italiane alla Libia, era in serie difficoltà. La sua posizione si fece ancora più critica alla luce dello scandalo che coinvolse il fratello Billy, accusato di traffici non del tutto leciti proprio con la Libia di Gheddafi. Sia Raegan che Giscard d’Estaing avevano interesse a indebolire Jimmy Carter e, di conseguenza anche Gheddafi. Quale momento migliore per liberarsi di lui e colpire anche Italia e Stati Uniti? Nelle relazioni internazionali, se un protetto fa danni bisogna colpire il protettore.


Il MIG 23 libico

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18 luglio 1980: indagini sul MIG 23 libico caduto sui Monti della Sila (Calabria)
Il caso Ustica, soprattutto nei primi due anni dell’inchiesta, è vittima di un’implacabile giostra mediatica; giornalisti ed esperti azzardano ipotesi di ogni tipo, talvolta incuranti del responso della Commissione Luzzatti: dal cedimento strutturale alla bomba a bordo, dall’ipotesi missile a quella della collisione in volo con un velivolo militare. Tra i sostenitori dell’ipotesi del missile, si fa sempre più vivo il sospetto che la caduta del MIG precipitato sui Monti della Sila, in Calabria, il 18 luglio 1980, ed il disastro di Ustica siano correlati.
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Stessi attimi, altra prospettiva. Francesco Marano è invece un muratore. Sta ristrutturando una casa a Castelsilano. La contrada Colimiti sta di fronte ai suoi occhi. Alle 11.00 si sviluppa un incendio proprio in quella località. Prende ciò che possiede e si reca a Colimiti.
Anche un pastore, Giuseppe Piccoli, vede un velivolo che vira di colpo per evitare un costone.
Il ritrovamento del MIg 23 libico nell’agro di Castelsilano in località Colimiti sulla Timpa delle Magare, avviene grazie a 3 persone che quel giorno vedono un aereo: 3 testimoni oculari secondo quanto sostengono le forze dell’ordine e la procura.>> (da Punto Condor. Ustica: il processo, di Daniele Biacchessi, Fabrizio Colarieti, 2002, 21)
La notizia della caduta del MIG 23, che in seguito verrà riconosciuto come appartenente alla flotta aerea militare libica, arriva al Comando dei Carabinieri alle 14.15 del 18 luglio 1980. Il relitto si trova in un profondo burrone. Il primo ad arrivare sul luogo dell’incidente è il comandante della compagnia dei carabinieri di Cirò Marina; subito dopo sopraggiungono il VPO della pretura di Savelli, l’avvocato Michele Ruggiero, il dottor Francesco Scalise, l’ufficiale sanitario di Castelsilano, e il maresciallo Salvatore Raimondi, comandante della PG di Crotone. Prima dell’arrivo delle autorità competenti, i primi curiosi arrivano sul luogo dello schianto per scattare delle fotografie. Lo fanno, da quanto dichiarato dal dottor Scalise in sede di interrogatorio nel 1989, anche alcuni amici dell’ufficiale sanitario durante l’autopsia sul corpo del pilota; sfortunatamente tutti i rullini vengono sequestrati (e probabilmente distrutti) quasi subito. Non si riuscirà a comprendere né il motivo dei sequestri né chi vi abbia provveduto; rimane il fatto che non si avrà più alcuna notizia di questi scatti. Alle 17.00, inizia l’ispezione del cadavere ad opera del dottor Scalise. Arrivano, nel frattempo, il capitano Vincenzo Inzolia, comandante della compagnia di Crotone, altri militari dell’arma, vigili del fuoco ed alcuni ufficiali dell’Aeronautica. Si ritiene opportuno precisare che Inzolia non ha alcuna competenza territoriale sul luogo del fatto, è singolare però che fosse lo stesso ufficiale che la notte dell’incidente del DC-9 si era informato, apparentemente senza motivo, sull’accaduto. Nel verbale di sopralluogo il dottor Scalise scrive che il corpo del pilota si trova su una pietraia in forte pendenza con la testa a monte, con le cinghie del paracadute legate al corpo e con i resti di un apparente seggiolino a circa un metro di distanza. L’uomo è di colorito scuro, corporatura robusta, 1.75 metri di altezza, capelli ondulati e baffi neri. Indossa una tuta da pilota di colore grigio scuro lacerata in più parti, non porta scarpe né distintivi. Il cadavere viene indicato in avanzato stato di decomposizione in un primo tempo, ma nel corso della stessa perizia, lo stesso Scalise attesta che il cadavere è “fresco”; qui cominciano le prime incongruenze: lo stesso gioco di versioni discordanti e sparizioni di prove che caratterizza la storia del DC-9 Itavia. Poco distante dal corpo del pilota viene ritrovato un casco di colore nero; è intriso di sangue. La morte è da attribuire alla frattura cranica conseguente ad un urto violento contro un corpo contundente duro. Il 19 luglio il vicepretore Savelli rilascia il nullaosta al seppellimento della salma non ancora identificata. Il tutto viene fatto con eccessiva fretta e lascia spazio a numerosi dubbi. Qualche giorno dopo, la Forza Armata per messo del generale di squadra aerea De Paolis chiede alla legione carabinieri di Catanzaro di considerare la possibilità di sottoporre ad autopsia la salma del pilota. Il giudice Priore, anni dopo, noterà come sia inconsueto che un atto di tale rilevanza sia stato compiuto su sollecitazione della Forza Armata e non d’iniziativa della procura locale. Il 22 luglio viene disposta l’autopsia del cadavere, fissata per il giorno successivo nella camera mortuaria del cimitero di Castelsilano. I professori Anselmo Zurlo, primario di medicina legale e cardiologo, ed Erasmo Rondanelli, primario patologo, effettueranno l’autopsia sul cadavere del pilota sotto la supervisione di numerosi militari dell’Arma e dell’Aeronautica, dell’assistente dei periti Scerra e del maresciallo dei carabinieri Lo Giacco. Il sostituto procuratore di Crotone Francesco Brancaccio non dà inizio all’autopsia fino a quando non giunge con l’elicottero un comandante in divisa, il generale di brigata Zeno Tascio, capo del SIOS Aeronautica, ed un fotografo convocato dai Carabinieri di Crotone, che scatta una ventina di fotografie a mano a mano che i reperti vengono evidenziati dai due periti tenendoli con le pinze; anche queste fotografie non verranno mai ritrovate. Entrambi richiedono ed ottengono la consegna di frammenti di cute per ricavare le impronte digitali dell’uomo. Successivamente si verrà a conoscenza dell’identità del pilota: si chiamava Ezzedin Fadah El Khalil, un mercenario siriano di origine palestinese-ebraica. Rondanelli dichiarerà in seguito che, su specifica richiesta del Procuratore e degli altri funzionari presenti quel giorno, non era stato possibile effettuare una perizia completa sul cadavere (ovvero procedere all’analisi degli organi interni e effettuare prelievi per gli esami istologici), ma era stato richiesto di procedere ad una semplice ricognizione di cadavere. Tale esigenza sarebbe stata dettata dalla necessità di riferire telefonicamente, quanto prima possibile, i risultati dei rilievi alla procura della Repubblica di Roma, che indaga sull’abbattimento del DC-9 di Ustica, e che ha richiesto ogni notizia utile sulla caduta del MIG: con specifico riferimento all’entità delle lesioni riportate del pilota. Il giorno successivo, il 23 luglio, i periti scrivono che il cadavere si trovava in “avanzato stato di decomposizione, con presenza di numerosi nidi di vermi”, ma in un secondo momento apportano correzioni a mano indicando come avanzatissimo lo stato di decomposizione. Questa correzione viene erroneamente interpretata come un atto dovuto per amicizia nei confronti di Aldo Davanzali presidente dell’itavia da parte del professor Zurlo. Anche in questo caso, come per la relazione del dottor Scalise, alcune affermazioni dei due periti: affermazioni per altro frettolose e vaghe; lasciano intendere che il cadavere fosse “fresco” all’epoca dei fatti e quindi congruente con la data di rinvenimento del relitto. Subito dopo la consegna della relazione, il 24 luglio, i due professori esprimono perplessità circa l’epoca della morte del pilota; decidono quindi di redigere un supplemento alla perizia già consegnata, dal titolo “Memoria aggiuntiva alla perizia autoptica eseguita in data 23 luglio 1980”. A detta dei due esperti la morte di quell’uomo risale ad almeno quindici giorni prima dell’autopsia, proprio intorno al 27 giugno 1980, il giorno dell’abbattimento del DC-9. I periti vengono convocati dal capitano Inzolia nella sede della compagnia dei carabinieri di Crotone ed in seguito la memoria aggiuntiva di Rondanelli e Zurlo sparisce.
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Inzolia non ricorda assolutamente l’episodio; non ricorda la convocazione in caserma dei due periti, non ricorda ufficiali venuti appositamente da Roma in aereo, che sarebbero ripartiti subito dopo l’incontro con i due professori; non ricorda esibizioni di polaroid nel suo ufficio; non ricorda alcun signore vestito di bianco; non ritiene che esistano  divise bianche nelle forze di Polizia. Questo atteggiamento dell’Inzolia è particolarmente grave. Egli palesemente intende cancellare il ricordo del fatto, di cui è l’unico  testimone. In effetti mai si sarebbe potuti arrivare alla identificazione dell’ufficiale, se non si fosse trovata quasi casualmente documentazione su quella missione. E ne sarebbe derivato un ulteriore motivo di aggressione alla credibilità dei periti, sostenitori di una convocazione e di un incontro, assolutamente non provati.>> (dalle “Conclusioni del Giudice Istruttore Rosario Priore sulla vicenda del MIG, 31/08/1999”)
Il relitto del MIG, a differenza di tutti i reperti fotografici ufficiali e non, non verrà mai posto sotto sequestro. Il 26 luglio l’Ambasciata di Libia presso il Governo italiano richiede, tramite un’impresa funebre romana, alla Prefettura di Catanzaro “passaporto mortuario per espatrio di salma”  del cittadino libico. La Prefettura, a sua volta, richiede alla Procura della Repubblica il nulla osta a fini di giustizia, che quest’Ufficio concede in giornata. Il rappresentante dell’impresa di pompe funebri, Petrocchi Romano, preleva da Castelsilano la bara del libico per il trasporto a Roma, da dove partirà in aereo verso la Libia. Il cadavere si presenta in avanzatissimo stato di putrefazione; è “pieno di vermi dappertutto”. A Ciampino ci sono diversi ufficiali dell’Aeronautica Militare e  dei Carabinieri oltre a funzionari dell’Ambasciata della Jamahirija. Un capitano dei Carabinieri chiama in disparte Petrocchi per chiedergli se i paracadute fossero uno o due. Questi non è però in grado di precisarlo, perché nella cassa c’è solo un telo e tanti stracci, così tanti che è stato costretto a comprimere con forza questo ammasso di stoffa sul cadavere per chiudere il coperchio della bara. Alla salma vengono resi persino gli onori militari. Il costo del trasporto viene inserito in un conto di altri trasporti effettuati, ammontante a ben 36.000.000 di lire. Quel conto non verrà mai pagato dalla Jamahirija. L’impresa riuscirà a recuperare solo la metà della somma dal nostro Ministero degli Affari Esteri. Sul relitto dell’aereo, come detto precedentemente, non è mai stato posto alcun vincolo di sequestro da parte dell’Autorità Giudiziaria di Crotone. Il Pubblico Ministero richiede quindi l’archiviazione il 29 luglio 1980 ed il 31 luglio il Giudice Inquirente emette il decreto, non essendo emerse responsabilità a carico di alcuno. Il 4 agosto dello stesso anno i rottami dell’aereo vengono restituiti. In tale data cessa l’interesse della giustizia al caso, ma altri organi dello Stato ed anche di altri Paesi seguono il fatto, e non perdono mai interesse per esso. L’Arma dei Carabinieri, l’Arma Aeronautica e la Commissione mista costituita per effetto di accordo tra il suo Stato Maggiore e l’Ambasciata libica in Italia, il S.I.S.MI, il Ministero degli Affari Esteri e l’Ambasciata d’Italia in Libia, le Autorità libiche, i Servizi di Paesi alleati ed amici.
A pochissimi giorni dal rinvenimento dell’aereo viene costituita una Commissione d’indagine mista sull’incidente, cioè di militari italiani e libici. Per parte italiana il colonnello Sandro Ferracuti, del 36° Stormo, in qualità di presidente; il tenente colonnello pilota Enzo Somaini di Stataereo; il tenente colonnello Alberto Grassini di Aerispelog, sostituito l’indomani dal maggiore Massimo Magistrelli, Capo Sezione degli Affari Giuridici e funzionario del 5° ufficio del 5° Reparto dello SMA; il colonnello CSA Ferdinando Monesi, di Ricercaereo; il capitano pilota Pasquale Preziosa del 36° Aerostormo; il capitano del Genio Aeronautico Claudio Scura. Membri libici: il tenente colonnello Mahmud Eltuhami, esperto tecnico; il tenente colonnello pilota Ashur Murik, esperto tecnico; il maggiore Faez Abdul Baki, esperto tecnico, il capitano ingegnere Abdul Gialil El Warfalli, esperto tecnico. Alla Commissione viene affidato il compito di stabilire le cause che hanno determinato l’incidente. La Commissione effettua la prima riunione e il sopralluogo nella zona dell’incidente lo stesso 24 luglio, data del telegramma. Tiene riunioni il 25, 26, 28, 29, 30, 31 luglio, il 1°, 20, 21 e 22 agosto. A conclusione redige una relazione dal titolo “Documentazione Tecnico Formale. Incivolo velivolo libico MiG23 MS. 18 luglio 1980 – Cap. Pil. Ezzeden Khalil. Timpa delle Megere presso Castelsilano (CZ)”, in due volumi, sottoscritti da tutti i membri italiani e da un solo membro libico, il capo delegazione, Mahmoud El Tuhami. L’ultimo capitolo contiene le conclusioni.
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” e la conseguente caduta del velivolo, sono stati naturalmente causati dall’esaurimento del combustibile, al termine dell’autonomia di volo.
Sul cadavere, in avanzato stato di decomposizione, sono state riscontrate ampie mutilazioni traumatiche, fratture ossee multiple ed, in particolare, distruzione del capo e del massiccio facciale con assenza della massa encefalica. Viene meno pertanto il contributo che accertamenti istochimici e tossicologici su opportuni frammenti di tale organo avrebbero potuto apportare all’ipotesi di fattori fisio-patologici dell’incidente legati al volo.>> (dalla “Documentazione Tecnico Formale Incivolo velivolo libico MiG 23-MS 18 luglio 1980 – Cap. Pil. EZZEDEN Khalil – Timpa delle Megere presso Castelsilano (CZ))
Le carte ufficiali dunque, quelle che non spariscono, puntano all’ipotesi del malore del pilota e allo spegnimento del motore in territorio italiano per esaurimento del combustibile.  Sembrerebbe da escludere l’ipotesi di un tentativo di lancio. I libici sostengono che si tratta di un volo di addestramento Bengasi-Marsa el Brega-Bengasi: il pilota si sente male, inserisce il pilota automatico, esaurisce il carburante e finisce in Calabria. Questa versione viene accettata all’unanimità anche dai periti italiani; ma il 18 luglio è periodo di Ramadan, che significa obbligo di digiuno totale, con attività di addestramento dei piloti assai ridotte. Venerdì è giorno di festa e, come sottolineerà il giudice Rosario Priore diversi anni più tardi, l’ipotesi di un’esercitazione è perlopiù inattendibile. Nonostante ciò il caso viene archiviato e giudicato come evento del tutto estraneo all’incidente di Ustica.
Circa dieci anni dopo: il giudice Rosario Priore, al quale è stata affidata l’inchiesta sull’abbattimento del DC-9 Itavia, telefona al professor Carlo Casarosa chiedendogli di far parte di un collegio per l’esame del problema del MIG 23; poiché detto incidente è stato, nel corso di quei dieci anni, più volte collegato all’incidente di Ustica. Priore necessita di un collegio agile e competente, composto da non più di tre persone; ed affida a Casarosa il compito di individuare e convocare gli altri due membri del collegio, scegliendoli in base alle loro esperienze pregresse. Casarosa indica il professor Enzo Dalle Mese, esperto radarista, e l’esperto di teste di guerra tedesco Manfred Held. I tre ricevono la documentazione relativa al ritrovamento del MIG 23, con i rispettivi allegati e si dirigono, qualche giorno dopo, sul luogo dell’avvenimento. Negli stessi giorni l’Aeronautica Militare costituisce un collegio di parte per seguire i lavori del collegio del giudice, mentre la parte civile (costituita dai parenti delle vittime e da Davanzali in rappresentanza della compagnia Itavia) conferma il collegio già nominato. Il collegio si mette subito all’opera e nota, dalla lettura dei documenti tecnici dell’incidente, che di tecnico in quelle relazioni, c’è davvero poco. Non veniva riportato alcun dato tecnico del velivolo, e l’ipotesi di rotta seguita dal MIG 23 per raggiungere le coste italiane, era stata assunta come dato di fatto senza eseguire i controlli del caso. Le autorità libiche avevano fornito i diagrammi di taratura per la decodifica dei dati del Flight Data Recorder del MIG 23, ma nessuna decodifica era stata mai effettuata. Sulle testimonianze di avvistamento, tra loro contraddittorie, non era stata fatta alcuna analisi critica. Inoltre stando a quanto riportato nei documenti ufficiali, il cadavere del pilota era completamente depezzato, ciò nonostante, sul terreno dove si trovava il corpo, non fu rinvenuta alcuna traccia significativa di sangue. La cosa era apparsa così strana che fu riportata esplicitamente sul verbale di ritrovamento redatto dai Carabinieri. Insomma, i risultati esposti nella relazione della Commissione italo-libica andavano esaminati con grande attenzione.
Giunti sul luogo dell’incidente, fotografie ufficiali alla mano, gli esperti notano che i danni sul relitto sono molto più compatibili con un impatto di tipo ventrale, piuttosto che frontale, come sostenuto dal collegio misto dieci anni prima. La roccia che costituisce il costone è molto friabile, tuttavia, sul costone interessato dall’incidente non si rilevava e non si rileva alcun segno di impatto; quindi il velivolo doveva aver impattato con il terreno nel punto esatto del rinvenimento del relitto, con una traiettoria di caduta molto ripida. Lo spegnimento del motore doveva essersi verificato immediatamente prima dello schianto.
Nella relazione della commissione mista erano comprese anche le dichiarazioni di tre testimoni che la sera dell’incidente del DC-9, verso le 21.00 del 27 giugno 1980, avevano osservato tre velivoli che, provenienti dal mare, più precisamente da dove si era persa la traccia dell’aereo civile, si erano diretti verso l’interno della Calabria, in direzione della Sila. I tre testimoni non si conoscevano e non avevano avuto modo di confrontare le loro opinioni, ma era impressionante notare come avessero descritto con estrema precisione lo stesso evento, visto da tre angolazioni diverse. Un’altra testimonianza di rilievo, che però all’epoca era stata ritenuta evidentemente di poco conto, fu quella del responsabile dell’aeroporto di Crotone, che riferì di essere stato allertato la sera del 27 giugno 1980 da appartenenti all’arma dei Carabinieri per accendere le luci di pista. L’aeroporto avrebbe dovuto accogliere elicotteri del Soccorso Aereo provenienti da Martina Franca in zona San Giovanni in Fiore, nei pressi della Sila.
<> (da “Ustica. Storia di un indagine” di Carlo Casarosa, 69)
Secondo le indagini dei tre periti è impossibile affermare che il MIG 23 avesse effettuato la missione ipotizzata nel documento della commissione in quanto incompatibile con la quantità di carburante presente nei serbatoi al decollo e con i consumi durante il volo. Anche le analisi radaristiche di Dalle Mese evidenziano alcune incongruenze con quanto riportato dalla commissione mista. La traccia analizzata dall’esperto, attribuita al MIG 23, non è congruente con la traiettoria che avrebbe dovuto percorrere lo stesso sotto il controllo dell’autopilota. Inoltre solo alcuni dei punti della traccia sono reali, gli altri sono stati introdotti manualmente dall’operatore, attraverso interventi sulla consolle di comando. Dalle analisi di Held emerge invece che l’esame di alcuni apparati interni del MIG (i pochi frammenti trattenuti in Italia nello stesso hangar che conteneva i resti del DC-9 Itavia) mostrano segni di impatto di frammenti di testa di guerra di missile. Un altro reperto, invece, costituito da una specie di serbatoio non meglio identificabile, presenta tracce di impatto di proiettili. Quando, saputi i risultati delle ricerche del collegio Casarosa-Dalle Mese-Held, il giudice Priore riferisce quanto  scoperto dagli esperti ai consulenti di parte, la reazione è immediata e violenta. L’operato e le competenze dei tecnici vengono messi in dubbio e qualche tempo dopo i consulenti di parte formalizzano le loro critiche depositando un apposito documento presso gli uffici del giudice Priore. Le critiche sono incentrate sul concetto che la scatole nera del MIG è uno strumento molto delicato e che per ricavare ed interpretare i dati registrati occorre una grande esperienza che, secondo i consulenti di parte, i tre esperti non hanno. Le loro letture dei dati sono inesatte e presto i collegio provvederà a fornire la riprova di quanto affermato in precedenza, per mezzo di fonti più competenti in materia. Presso il centro di ricerca di Manching vicino Monaco, è presente un esemplare di MIG 23 che è utilizzato a scopo di studio. Così i tre periti si recano in loco per effettuare tutte le verifiche necessarie. La decodifica dei dati effettuata da Held, Casarosa e Dalle Mese viene giudicata corretta; il responso viene messo per iscritto. I tecnici tedeschi informano il collegio che un attrezzato cento di manutenzione per MIG si trova presso il “Flugzeugwerft Dresden” di Dresda, nella ex DDR. Questo centro è munito di un laboratorio per la decodifica dei dati degli FDR (Flight Data Recorder) del MIG; da questi esperti il collegio potrebbe ricevere un’ulteriore conferma di quanto da loro sostenuto. Il muro di Berlino è caduto da poco, sancendo la fine della Guerra Fredda; l’incontro con i tecnici del Flugzeugwerft Dresden, dovrebbe essere facilmente realizzabile. Nonostante l’opposizione, da parte dei consulenti di parte, a questa iniziativa ritenuta inutile, il giudice Priore si attiva per una rogatoria internazionale a Dresda, ma le autorità competenti non autorizzano la missione. I tecnici chiedono il permesso di recarsi comunque a Dresda come turisti, in forma non ufficiale. Durante il viaggio la delegazione italo-tedesca viene ricevuta da tre operatori del centro di Flugzeugwerft Dresden, tutti conoscitori del MIG 23 ma molto poco collaborativi, almeno inizialmente. Alla fine della visita tutte le supposizioni dei tre periti vengono ritenute per l’ennesima volta corrette; in più a Casarosa, Held e Dalle Mese viene consegnato un FDR non più idoneo al volo sul quale poter svolgere ulteriori analisi. I periti lo portano in Italia per sottoporlo all’attenzione del giudice e mostrargli la fondatezza delle ipotesi da loro formulate in precedenza. Dai sopralluoghi effettuati in Germania emerge fondamentalmente che la pellicola di cui sono in possesso i tecnici del collegio, molto probabilmente non è l’originale estratto dal relitto del MIG, ma una copia riprodotta su pellicola Kodak da macchina fotografica. La pellicola di cui dispongono presenta molte, troppe anomalie e parti mancanti o sostituite in seguito. Nella relazione della commissione italo-libica si legge che verso la fine del volo la pellicola del Flight Data Recorder si è incastrata producendo tracce sovrapposte e confuse. Dalle ricerche effettuate in Germania, nonché da quanto si può notare dal reperto consegnato dagli esperti tedeschi a quelli italiani; il nastro non si sarebbe mai potuto incastrare, poiché non ruota su dei rocchetti come dichiarato dai membri della commissioni italo-libica. La pellicola, una volta finita, esce automaticamente dalla fessura di vincolo. Da questo deriva che la commissione che ha redatto questa parte della relazione non aveva neppure visionato l’FRD del MIG caduto.
Agli inizi del terzo anno di attività intorno al caso Ustica, la commissione peritale, chiamata a rispondere ai quesiti posti dal giudice Priore sul MIG 23 libico, consegna la sua relazione finale. La replica dei consulenti di parte giunge immediata. Essi sostengono stavolta che ad essere sbagliate non sono più  le letture dei dati del Flight Data Recorder, ma direttamente i diagrammi di taratura forniti dalle autorità libiche. Forniscono perciò un altro diagramma di taratura, appositamente studiato per essere utile ad avvalorare la tesi che quanto appena affermato dalla commissione Casarosa-Held-Dalle Mese è inesatto. Secondo loro i dati contenuti nella relazione della commissione italo-libica sono da ritenersi approssimati e per rendere possibile la missione dichiarata vanno opportunamente adeguati.
<polari del velivolo
. A questo proposito fu impiegata una collaudata e ben nota tecnica di disinformazione consistente nel presentare un enorme mole di dati in modo da rendere difficoltoso orientarsi e trarre da essi una qualche conclusione. […] I dati delle tabelle (quelle fornite dai consulenti di parte) erano inequivocabilmente sbagliati! Erano invece da ritenersi corretti quelli da me valutati. […] All’inizio dell’autunno fummo in grado di depositare presso il giudice le nostre controdeduzioni alle quali i consulenti di parte non fornirono repliche di rilievo. La perizia MIG poteva così ritenersi conclusa. […] Alla fine del lavoro facemmo presente al giudice Priore le difficoltà con le quali ci eravamo scontrati, che derivavano sia dalla difficoltà del problema sia, e principalmente, dalla situazione di forte contrasto con i periti di parte i quali spesso presentavano, a sostegno delle loro ipotesi, documenti emanati dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e documenti emanati dal Comitato per Ustica, che richiedevano opportuni controlli. La nostra sensazione, condivisa dal giudice (Rosario Priore) fu che intorno al caso MIG si fosse creata una barriera protettiva per difendere ad oltranza l’ipotesi della commissione italo-libica, anche contro le più plateali evidenze contrarie, arrivando anche a manipolare dati ormai consolidati. […] A conforto di quanto da noi sostenuto nella relazione e alla conclusione di tutto il lavoro, il giudice Priore ritenne “umano” sollevarci dal nostro stato di disagio mettendoci al corrente che indagini giudiziarie e sequestri di materiale avevano messo in evidenza che la caduta del MIG non si era verificata nel giorno riportato nella documentazione ufficiale (18 luglio 1980), ma doveva collocarsi in un periodo anteriore, anche se non precisamente definibile. Era chiaro quindi che il MIG non aveva effettuato la missione indicata nel documento della commissione italo-libica e pertanto le nostre analisi erano sostanzialmente corrette. […] Se il velivolo non era caduto quel giorno allora certamente quel giorno ci fu una simulazione di incidente per accreditarne la data. […] In questo contesto andava poi inserito l’episodio dell’allertamento dell’aeroporto vicino a Crotone da parte di funzionari appartenenti ai servizi per la perdita di un velivolo la sera dell’incidente al DC-9, non nel Mediterraneo, ma sui monti della Calabria che nei giorni successivi furono oggetto anche di ricognizioni con elicottero. Fu detto poi che queste ricognizioni erano state effettuate per identificare depositi di auto rubate. […] Non si poteva non pensare che, probabilmente, la presenza del relitto del MIG sui Monti della Sila, grossomodo alla stessa latitudine alla quale era caduto il DC-9, poteva essere una delle chiavi interpretative per decifrare l’incidente al velivolo Itavia.>> (da “Ustica. Storia di un’indagine” di Carlo Casarosa, 119, 120, 121)
Nella sua relazione conclusiva datata 31 agosto 1999, il giudice Priore riporta la serie di difficoltà con cui si è dovuto confrontare nel corso dell’inchiesta relativa al MIG 23 libico; con particolare riferimento alla reticenza dimostrata dai funzionari del S.I.S.M.I. e del SIOS. Priore afferma che la ricostruzione di quanto accaduto sui Monti della Sila, come quella del DC-9 Itavia, è stata difficile; il ritardo e l’omissione della trasmissione di documenti custoditi agli atti del Servizio, hanno contribuito ad infittire il mistero attorno alla vicenda del MIG. L’Autorità Giudiziaria chiede più volte ai Sevizi di consegnare tutti i dati relativi ai fatti del 18 luglio: una prima volta nel 1991, ed ancora nel 1993. Solo il 20 aprile 1995 si è entrati in possesso, sequestrandoli, di tutti i documenti celati negli archivi del S.I.S.M.I. Come si è già avuto modo di specificare, si è a lungo pensato che i due eventi: quello del DC-9 Itavia il 27 giugno 1980, e quello del MIG libico il 18 luglio dello stesso anno, fossero collegati. Tale connessione è stata riscontrata più e più volte: in riferimenti documentali nei quali la caduta del velivolo libico viene indicata come avvenuta nel giugno 1980; ma anche nella testimonianza del colonnello Milani del S.I.S.M.I. che ha dichiarato di aver tradotto e sottratto dall’ufficio del generale Zeno Tascio una lettera, rinvenuta indosso al pilota liibico, nella quale lo stesso pilota esprimeva una sorta di pentimento per aver abbattuto un velivolo civile italiano. Lo stesso Tascio scrive sulla sua agenda, in data 28 luglio 1980, una nota in cui i due disastri aerei sono chiaramente messi in connessione tra loro; i due incidenti vengono nuovamente accostati nella trasmissione dei dati radar del MIG libico, da parte del Centro CS di Bari, con una missiva ad oggetto “Incidente DC9 Itavia”. I vertici del S.I.S.M.I. smentiscono sistematicamente e categoricamente che ci sia un legame tra la vicenda di Ustica e la caduta del MIG libico; tuttavia dalla cartella, prelevata dagli archivi dei Servizi, relativa all’anno 1980 contenente il carteggio sull’incidente di Ustica, è stata rinvenuta una sottocartella contenente anche copie di documenti concernenti il MIG libico.
<> (dalle “Conclusioni del Giudice Istruttore Rosario Priore sulla vicenda del MIG, 31/08/1999”, 4160)
Il capitano Masci, figura centrale della vicenda, asserisce che l’incarico di essersi recato sul posto di caduta del MIG gli era stato dato dai colleghi della sua Sezione; asserisce che la trasmissione dei dati relativi al MIG libico con missiva ad oggetto DC9 Itavia del Centro CS di Bari, era da ricondurre ad un mero errore nell’oggetto; come allo stesso modo sarebbe stato mero errore l’apposizione del 14 luglio 1980 come data di caduta del velivolo nel documento del 31 luglio 1980.
Il generale Notarnicola ha negato di aver disposto l’acquisizione a Martina Franca dei dati del MIG libico nel contesto di un accertamento concernente la vicenda del DC9 Itavia; ha negato di essere stato a conoscenza che il capitano Masci si fosse recato sul luogo di caduta del MIG e che su questa missione avesse anche riferito. Ha negato di avere avuto rapporti diretti con il generale Tascio e di aver parlato con quest’ultimo in relazione alla connessione tra i due eventi; ha negato di aver inviato il tenente colonnello Alloro dal generale Tascio per la consegna dell’appunto sulle informazioni apprese dal capitano Masci al riguardo della caduta del MIG libico.
Altra testimonianza che merita di essere citata è quella del generale Giuseppe D’Ambrosio, che nel periodo di interesse ricopriva il delicato incarico di Vice Direttore Operativo del S.I.S.MI. Tali dichiarazioni vanno citate perché costituiscono uno spaccato di reticenza, di falsità, di totale assenza di spirito di collaborazione con l’Autorità Giudiziaria. E ciò é ancor più grave perché questo atteggiamento di chiusura proviene da un ufficiale generale che ha ricoperto alti incarichi in seno agli organismi istituzionali del Paese. D’Ambrosio, dopo aver premesso di non essersi mai occupato né della vicenda di Ustica né di quella del MIG libico, afferma di essere stato trasferito il 24 giugno 80 al S.I.S.MI con l’incarico di consulente del generale Santovito, mantenendo l’incarico di assistente al ministro della Difesa per le relazioni internazionali. Dal 1° di novembre del 1980 al 2 di novembre del 1981 ricoprì l’incarico di vice direttore operativo. Nessuna spiegazione ha saputo dare, lui che asserisce di non essersi mai occupato della vicenda del MIG libico, al fatto che il suo nominativo e relativa utenza telefonica fossero inseriti in un appunto apposto sulla copertina interna del fascicolo relativo al MIG libico acquisito allo Stato Maggiore del S.I.S.M.I. D’Ambrosio afferma soltanto: “Non so spiegarmi come sia stato messo il mio recapito telefonico in questa lista. Ritengo che io sia stato messo in un certo senso automaticamente, per chiamate in caso di mancato reperimento del Direttore.”
Il generale Tascio, capo del SIOS all’epoca, raggiunse il luogo dello schianto del MIG libico una prima volta lo stesso 18 luglio 1980 su ordine verbale del Sottocapo di SMA, una seconda volta il 22 successivo; entrambe le volte allo scopo di acquisizione di dati tecnici.
Sull’affare viene esaminato anche il Capo della Stazione CIA a Roma in carica all’epoca. Clarridge che dichiara di essere stato avvisato personalmente a mezzo telefono dal generale Tascio. Costui lo chiamò e lo invitò al suo quartier generale; qui gli riferì che un MiG23 libico era caduto in Calabria e gli chiese l’intervento di personale sul luogo per l’esame del velivolo. Quando ricevette quell’informazione e questa richiesta, sulla stampa e gli altri mass-media non era ancora apparsa la notizia. Di questo è sicuro, perché altrimenti lo avrebbe immediatamente saputo, e se l’avesse saputo, avrebbe chiesto direttamente al S.I.S.MI le informazioni precise, giacché, specifica, “ovviamente la caduta di un MiG23 libico non è una cosa che succede tutti i giorni”. Non chiese però, dopo l’informazione, conferma al S.I.S.MI, poiché ebbe la sensazione che Tascio non volesse che quel Servizio fosse ancora informato in quel momento.
Clarridge si è poi soffermato sul carattere di urgenza della richiesta di Tascio. Tra tale richiesta e l’arrivo del team richiesto da Tascio per analizzare il relitto, ci fu una settimana o più di una settimana. Nella richiesta c’era un senso di urgenza, poiché i libici avevano chiesto la restituzione del velivolo e secondo la sua sensazione Tascio era sotto pressione. Su questa affermazione Clarridge appare sicuro, era stata compiuta in un tempo nel quale ancora nulla era apparso sui media. Non ricorda se i suoi uomini gli riferirono di aver visto un documento di identità del pilota; ricorda però che Tascio conosceva il suo nome, ma non sa da dove fosse stato rilevato.
Anche l’Esercito fu impegnato nella vicenda; e precisamente nella vigilanza del relitto. Del fatto non si fa menzione in alcun rapporto; solo alcune fotografie apparse sulla stampa mostrano immagini di militari con il basco.  La vicenda emerge in un articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica” del 2 novembre 90 dal titolo “Ho fatto la guardia al MiG libico”, di Sergi Pantaleone. In questo articolo un ex soldato, tale Di Benedetto Filippo (la cui identità non è stata resa nota nell’immediato poiché il giovane era impaurito e sotto una sorta di shock emotivo) di leva in servizio nel 1980 in una caserma di Cosenza, dichiara che quell’aereo era stato abbattuto in Calabria lo stesso giorno in cui il DC9 Itavia si era inabissato al largo di Ustica, e che egli aveva montato la guardia al cadavere del pilota e ai rottami per tre giorni alla fine di quel mese di giugno, precisamente a partire dall’alba del 28. Di Benedetto aveva iniziato il servizio militare il 1° agosto 1979 ed era stato congedato il 1° agosto 1980. Ricorda di aver montato la guardia al relitto del MiG23, ma è sicuro di averlo fatto prima del 18 luglio 1980. Nel giugno di quell’anno era candidato alle elezioni amministrative che si tennero nella prima metà del mese, ed aveva usufruito in qualità di candidato del permesso di un mese. Era ritornato pochi giorni prima di congedarsi. Per queste ragioni era sicuro di non essere stato in servizio il 18 luglio.
L’aereo, dichiara, appariva intatto e con la prua a Sud. Il pilota era un bianco e cioè non era di carnagione olivastra “come un marocchino”. Racconta inoltre le vicende del servizio di quella mattina. I soldati riuscirono a trovare, il luogo di destinazione a seguito di diversi tentativi. Sul posto non c’era nessuno, né altri militari né curiosi. Quando rientrarono in caserma a Cosenza, gli ufficiali dissero ai militari che “non avevano visto niente”, cioè ingiunsero di dimenticare ogni cosa. Il velivolo era a mezza altezza della gola, e non a valle come dichiarato nei rapporti ufficiali. Appariva integro, cioè non spaccato in più parti. Di Benedetto riuscì a vedere il pilota, che era seduto al posto di guida “accasciato sui comandi … sembrava un fantoccio”. Il giorno dopo il cadavere non era più sul luogo. Di Benedetto chiese informazioni sul fatto agli ufficiali e gli fu risposto di non preoccuparsi “perché era tutto a posto”. Nel frattempo erano intervenuti altri militari a bordo di una macchina militare americana. Di Benedetto, che non aveva mai collegato in precedenza la caduta del MIG con quella del DC9 Itavia, ha ricordato che del MIG si parlò sulla stampa diversi giorni dopo la loro missione di guardia.  Costui non è il solo a ricordare questo “particolare”: buona parte dei suoi compagni di leva ha ricordato che il fatto avvenne nella prima quindicina di luglio, nei trenta giorni a cavallo tra giugno e luglio, tra fine giugno e i primi di luglio.
La relazione, contente le conclusioni del giudice istruttore Rosario Priore, in merito alla vicenda del MIG libico rinvenuto sui Monti della Sila in data 18 luglio 1980, si inserisce in quella decisamente più ampia relativa ai fatti di Ustica, e consta di 442 pagine. Al termine di un’attenta analisi dei dati rinvenuti e delle innumerevoli testimonianze raccolte in anni e anni di indagini parallele a quelle sull’abbattimento del DC-9 Itavia nel cielo di Ustica; il giudice tira le somme in cinque pagine di conclusioni, che indicano che:
<> (dalle “Conclusioni del Giudice Istruttore Rosario Priore sulla vicenda del MIG, 31/08/1999”, 4510, 4511, 4512, 4513)
FRANCESCA NOVATO – Ustica: Destini Incrociati

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