IL MONDO E' COME UNO SPECCHIO

Osserva il modo in cui reagisci di fronte agli altri. Se scopri in qualcuno una qualità che ti attrae, cerca di svilupparla in te stesso. Se invece osservi una caratteristica che non ti piace, non criticarla, ma sforzati piuttosto di cancellarla dalla tua personalità. Ricorda che il mondo, come uno specchio, si limita a restituirti il riflesso di ciò che sei.

giovedì 23 aprile 2015

Note sulla Sindone

Nulla va perduto in natura, ma la vera spiritualità è difficilmente connessa alla materia. L'essenza della spiritualità si trova proprio nel distacco e superamento della materia. Cadaveri, ossa, panni, chiodi, reliquie varie quasi sempre false, come possono avvicinare allo Spirito con la S maiuscola?

"In una delle sue ultime predicazioni, un mese prima di morire, Lutero, commentando il passo della conversione di Paolo, volle contrapporre la «vera» reliquia cristiana, la Parola di Dio, alle «false» reliquie, quelle dei «papi e cardinali che sono totalmente insicure e inventate sognando, per burlare e turlupinare il mondo». Lutero ce l’aveva in particolare con il nesso reliquie-indulgenze, ovvero il sistema penitenziale tardo medioevale, attraverso il quale «il papa vende i meriti di Cristo insieme ai meriti supererogatori di tutti i santi e della Chiesa intera eccetera. Tutto questo non è tollerabile. Non solo è una pura invenzione umana, senza fondamento nella Parola di Dio, assolutamente non necessaria e non comandata, ma contraddice pure il primo articolo sulla redenzione e quindi non può in alcun modo essere tollerato», (Lutero, 1992).
Anche Calvino se la prese con il culto delle reliquie che affollavano l’Europa del XVI secolo. Le sue argomentazioni che ritroviamo nel Trattato sulle reliquie del 1543 (Calvino, 2005) sono innervate da una sdegnata ironia circa le «pie frodi» con cui la Chiesa pascola il gregge. Calvino evidenzia il netto contrasto tra culto dell’immagine e dettato biblico: «Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo […] e non ti prostrare davanti a loro e non li servire perché io, il Signore, sono un Dio geloso» (Esodo 20,4-5) illustra alcune delle numerosissime reliquie presenti in Europa (comprese una dozzina di sindoni) e ne trae la conclusione che si tratta di superstizione pagana. Si fa di Dio un idolo gestito dalla Chiesa."

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da Micromega speciale
http://temi.repubblica.it/micromega-online/speciale-linganno-della-sindone/


Per riuscire a capire a cosa serva alla Chiesa cattolica di oggi tutta questa enfasi sulla Sindone sono costretto a pormi delle domande.
Forse la Chiesa cattolica di oggi, che ha sposato con così grande entusiasmo il culto a Padre Pio, vuole promuovere un culto popolare che abbia un oggetto più vicino al centro della fede cristiana: Gesù Cristo?
Forse si insiste sull’autenticità della Sindone per avere una prova della risurrezione di Gesù?
Forse si vogliono mettere a tacere i dubbi che emergono dalla scienza e dalla filosofia moderna mediante un fatto che appaia indubitabile al popolo e che perciò neutralizzi il dubbio delle coscienze critiche?
Forse si considera un oggetto una prova di fede?
Forse si crede che il sacro sia materializzabile in oggetti?
Forse si vogliono riconquistare alla fede cattolica grandi masse di persone che non sono abituate al ragionamento critico, alla meditazione, alla lettura della Bibbia, alla preghiera personale?
Forse le gerarchie ecclesiastiche pensano che queste persone possono essere tenute all’interno della Chiesa mediante forme di culto più o meno feticistiche, solo mediante una religiosità in cui il tatto, la vista, l’adorazione di materiali sacri costituiscono la via principe per suscitare l’adesione complessiva della persona?

Il lenzuolo del cadavere di Gesù non serve, non lo si conserva, non lo si mostra e non lo si propone come oggetto utile per la fede perché la fede consiste in una presenza dello Spirito nell’interiorità dell’uomo, in un culto in spirito e verità che non ha bisogno di luoghi. Laddove c’è bisogno di spostarsi per trovare il sacro, ebbene lì non c’è l’adorazione in spirito e verità.

Nessuno dei vangeli e nessuno dei testi cristiani prodotti nel I secolo dice che qualcuno dei discepoli di Gesù andò nella tomba di Gesù a recuperare il lenzuolo in cui egli era stato avvolto. Nessun testo delle origini cristiane ci dice che qualche cristiano andasse alla ricerca di questo lenzuolo.
Nessun testo delle origini cristiane ci dice che i cristiani delle origini conservassero da qualche parte questo lenzuolo.
Nessun testo delle origini cristiane ci dice che i cristiani usassero, per scopi religiosi o per qualsiasi altro scopo, un lenzuolo con l’immagine del volto e del corpo di Gesù.

Il cristianesimo primitivo non aveva bisogno alcuno di un lenzuolo con un’immagine di Cristo impressa. Il bisogno di statue, di oggetti e immagini sacre era invece caratteristico della religiosità cosiddetta pagana di allora. Anche se i cosiddetti pagani sapevano bene che le loro statue non coincidevano con la divinità che rappresentavano.
Il cristianesimo primitivo era una religione della parola e dello spirito. Non creò mai oggetti in cui trovare materializzata la propria fede. Unica eccezione furono testi, ma solo come espressione di una Parola trascendente e non materializzabile, se non nel contatto mistico tra uomo o donna e Dio.

Un culto, una venerazione o anche una qualche attenzione religiosa al lenzuolo o ai panni in cui fu avvolto il cadavere di Gesù risulta del tutto assente dalla spiritualità cristiana almeno nei primi cinque secoli, quelli in cui il cristianesimo si è formato pienamente dal punto di vista spirituale, istituzionale e dogmatico. Per tutti questi motivi, l’uso attuale che la Chiesa cattolica permette e promuove della Sindone a scopi religiosi mi sembra contrario alla religione del cristianesimo primitivo e al suo spirito.
I discepoli storici di Gesù dopo la sua morte non ebbero bisogno della Sindone, non ne ebbe bisogno la Chiesa antica. Oggi non ce n’è bisogno per la fede cristiana. Ma, allora, a cosa serve la Sindone? Che tipo di religione esprime o suggerisce alle folle, ai credenti e ai non credenti?



I Vangeli e la Sindone
http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-vangeli-e-la-sindone/


Cosa c’è dietro la recente scelta della Chiesa cattolica di ‘puntare’ sulla Sindone? Perché le gerarchie sembrano voler tornare a promuovere forme di culto più o meno feticistiche? Per rispondere a queste domande, e per dare un giudizio
su quanto sta accedendo, può essere utile rivolgersi ai testi del primo cristianesimo, da dove emerge chiaramente una ‘religione della parola e dello spirito’, non delle immagini e delle reliquie.

di Mauro Pesce, da MicroMega 4/2010


Perché mostrare la Sindone?

Nella buca delle lettere ho trovato un invito a un pellegrinaggio organizzato da una parrocchia cattolica del centro storico di Bologna in cui vivo. Il pellegrinaggio era organizzato «in occasione dell’ostensione della Sindone (il lenzuolo che tutto lascia ritenere che abbia ricoperto il corpo di Gesù durante la sua permanenza nel sepolcro, lasciandovi impresse, come in un negativo fotografico, le impronte delle sofferenze da lui subite durante la passione)». Evidentemente l’idea dell’autenticità del lenzuolo chiamato Sindone è penetrata capillarmente in ogni settore di base della Chiesa cattolica, dal Nord al Sud Italia. Pochi giorni fa, il venerdì santo, in viale Fardella a Trapani, in una piccola cartolibreria cattolica i libri in vendita erano quasi tutti sulla Sindone.

Mi domando perché la Chiesa cattolica italiana metta oggi così grande impegno a sostenere l’autenticità di questo pezzo di stoffa. Sono nato e battezzato cristiano, ho avuto – come molti miei amici e conoscenti – un’educazione cattolica serena e accurata. Per tredici anni dalla prima elementare al terzo liceo ho frequentato le scuole dei padri gesuiti, di cui ho un buon ricordo. Ho addirittura frequentato come laico per tre anni i corsi di filosofia della Pontifica Università Gregoriana. Mai, in questo percorso più che ventennale, qualcuno mi ha parlato della cosiddetta Sindone. Da bambino leggevo le vite di Gesù e di Maria che mi davano in casa. La mia famiglia recitava ogni giorno dopo cena il rosario. Ho imparato a memoria con un certo entusiasmo e impegno il catechismo di Pio X. Mai, dico mai, coloro che si occupavano della mia fede menzionarono la Sindone. Diventato adulto mi sono trovato a decidere se rimanere o no nella fede cattolica. Lo studio della storia del cristianesimo, della storia delle religioni, e il confronto serrato con la filosofia moderna mi obbligava a passare da una cultura accettata per tradizione (anche se vissuta intensamente) a una decisione individuale meditata. Ebbene, in questo processo di riesame critico non mi sono mai imbattuto in qualcuno che proponesse la Sindone come un punto di riferimento importante.

Per riuscire a capire a cosa serva alla Chiesa cattolica di oggi tutta questa enfasi sulla Sindone sono costretto a pormi delle domande.
Forse la Chiesa cattolica di oggi, che ha sposato con così grande entusiasmo il culto a Padre Pio, vuole promuovere un culto popolare che abbia un oggetto più vicino al centro della fede cristiana: Gesù Cristo?
Forse si insiste sull’autenticità della Sindone per avere una prova della risurrezione di Gesù?
Forse si vogliono mettere a tacere i dubbi che emergono dalla scienza e dalla filosofia moderna mediante un fatto che appaia indubitabile al popolo e che perciò neutralizzi il dubbio delle coscienze critiche?
Forse si considera un oggetto una prova di fede?
Forse si crede che il sacro sia materializzabile in oggetti?
Forse si vogliono riconquistare alla fede cattolica grandi masse di persone che non sono abituate al ragionamento critico, alla meditazione, alla lettura della Bibbia, alla preghiera personale?
Forse le gerarchie ecclesiastiche pensano che queste persone possono essere tenute all’interno della Chiesa mediante forme di culto più o meno feticistiche, solo mediante una religiosità in cui il tatto, la vista, l’adorazione di materiali sacri costituiscono la via principe per suscitare l’adesione complessiva della persona?

I documenti per rispondere

Ho deciso quindi di rivolgermi ai testi del primo cristianesimo per vedere: a) se in essi si parli della Sindone; b) da quando si comincia a parlare della Sindone nel cristianesimo; c) se nel cristianesimo antico esistano forme di religiosità che possono accettare come tollerabile un culto come quello della Sindone che oggi viene proposto.
Quando parlo di Sindone intendo il pezzo di stoffa su cui sta impresso il volto di un uomo sdraiato supino e i segni del suo corpo fino ai piedi.

Il Vangelo di Marco (15,43-16,8) scrive: «Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo (sindôn), lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo (sindôn), lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro. Intanto Maria di Magdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto. Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole. Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?”. Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”. Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura».

Nel Vangelo di Marco quindi il cadavere di Gesù viene avvolto in un lenzuolo (sindôn) da Giuseppe di Arimatèa. Quando Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome vanno al sepolcro vedono solo «un giovane, seduto sul lato destro». Ma non sembra vedano nella tomba qualcos’altro, tanto meno un lenzuolo. Successivamente, il Vangelo di Marco non parla più della tomba. Quindi, secondo questo vangelo, nessuno è andato nella tomba a recuperare il lenzuolo in cui era stato avvolto il cadavere di Gesù per conservarlo.

Leggiamo anche il Vangelo di Luca (23,50-24,12): «C’era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo (sindôn) e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno”.

Ed esse si ricordarono delle sue parole. E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse. Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo i panni. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto».

Il Vangelo di Luca presenta dunque un racconto in parte differente. Anche questo vangelo dice che Giuseppe di Arimatèa avvolse il cadavere di Gesù in un lenzuolo (sindôn). Il gruppo di donne che va al sepolcro è però in parte differente: sono Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo (non come in Marco: Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome). Le donne vedono non un solo giovane (come in Marco), ma «due uomini […] in vesti sfolgoranti». Le donne non vedono altro. Non sembrano proprio vedere panni o lenzuola. È Pietro che, accorso al sepolcro, non vede i due giovani, ma dei panni (ta othonia). Si noti bene: non un lenzuolo, sindôn, ma – al plurale – panni o lenzuola (othonia). (Spesso othonia viene tradotto con la parola «bende», ma questa traduzione è contestabile dal punto di vista lessicale. Più che di bende si tratta di una stoffa piuttosto grande, che potremmo chiamare «panno» o «lenzuolo».) Pietro sembra non avere intenzione di toccare alcunché. Si guarda bene dal toccare le lenzuola o prenderle con sé per conservarle. È strano che l’autore del Vangelo di Luca dapprima dica che Gesù è stato avvolto in una sindôn, lenzuolo, e poi dica che Pietro vede nella tomba non una sindôn [sindôn, in greco è un sostantivo femminile] ma degli othonia. Ha voluto differenziare gli oggetti oppure solo le parole? Il significato del termine negli Atti degli apostoli (10,11; 11,5) appare chiaro: un othon è un panno che, se preso per i suoi quattro angoli, può contenere molti oggetti al suo interno. E quindi potrebbe in sostanza significare lenzuolo, panno abbastanza grande. Gli Atti degli apostoli ai versetti 10,11 e 11,5 usano il termine al singolare, perché si riferiscono a un solo othon. Nella tomba di Gesù, Pietro vede invece degli othonia, cioè almeno più di un lenzuolo o panno.

Su questi panni, stando al Vangelo di Luca, Pietro non vede alcuna immagine di Gesù impressa! La presenza di queste lenzuola serve al racconto solo per dire che il corpo di Gesù non è più nello stato in cui era prima. Non è più avvolto da panni funerari. L’assenza di ogni immagine di Gesù sulle lenzuola (oltre al fatto che si tratta di lenzuola al plurale) mi sembra tolga ogni possibilità di identificazione tra la Sindone di Torino e le lenzuola menzionate dal Vangelo di Luca.
Il Vangelo di Luca poi non parla più di questi panni o lenzuola né dice che qualcuno le abbia prese. Gli specialisti dicono che gli Atti degli apostoli è un’opera scritta dallo stesso autore del Vangelo di Luca. Ebbene: negli Atti degli apostoli non si parla più né del lenzuolo, né dei panni che avevano avvolto il cadavere di Gesù secondo il Vangelo di Luca. Il disinteresse per questo argomento è totale.

Il Vangelo di Matteo (27,57- 28,8) scrive invece: «Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatèa, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù. Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in lenzuolo puro (sindoni kathara) e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Magdala e l’altra Maria. Il giorno seguente, quello dopo la Parascève, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo: “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: ‘Dopo tre giorni risorgerò’. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!”. Pilato disse loro: “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”. Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia. Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro. Ed ecco che vi fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve. Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite. Ma l’angelo disse alle donne: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto”. Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli».

Qui il racconto è sostanzialmente diverso da quello di Luca: si parla di una riunione di autorità religiose e politiche che fanno sigillare il sepolcro di Gesù e lo fanno sorvegliare da armati. Un angelo scende dal cielo. La discesa è accompagnata da un terremoto. L’angelo apre il sepolcro alla presenza sia dei soldati sia di «Maria di Magdala e l’altra Maria». Esse vedono solo un angelo (non due come in Luca) e assistono all’apertura del sepolcro (mentre in Marco il sepolcro era già aperto). Solo Matteo parla della presenza dei soldati e delle donne all’apertura del sepolcro da parte di un angelo.

È importante il fatto che le donne non entrano nel sepolcro e che in esso non entri nessuno dei discepoli. Pietro quindi, secondo il Vangelo di Matteo, non vede alcun lenzuolo abbandonato nella tomba come invece raccontava Luca.
Infine, il quarto vangelo contenuto nel canone del Nuovo Testamento, quello detto di Giovanni (19,38; 20,10) scrive abbastanza diversamente dagli altri. Non è solo Giuseppe di Arimatèa che si fa dare il cadavere di Gesù da Pilato, ma anche Nicodemo. Ambedue avvolgono il cadavere di Gesù, ma non in una sindôn, bensì – al plurale – in othoniois. Per giunta, il Vangelo di Marco sostiene che «passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù» e così pure dice Luca: «Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato». Giovanni invece pensa che il cadavere di Gesù sia stato già profumato e unto da Giuseppe di Arimatèa e Nicodemo. In Giovanni è solo Maria Maddalena che va al sepolcro e non altre donne come in Marco, in Luca e Matteo. Quando Maria di Magdala arriva, il sepolcro è già aperto (come in Marco e non ancora chiuso come in Matteo): «Dopo questi fatti, Giuseppe d’Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in panni (othonia) insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino. Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide i panni (othonia) per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide i panni (othonia) per terra, e il sudario (soudarion), che gli era stato posto sul capo, non per terra con i panni (othoniôn), ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa».

In sostanza, il Vangelo di Giovanni è coerente nell’affermare che il cadavere di Gesù fosse stato avvolto in lenzuola al plurale (othonia). Aggiunge che nella tomba c’era anche piegata a parte un soudarion che «era stato posto sul capo» di Gesù. È interessante poi quando parla al capitolo 11,44 delle fasciature del cadavere di Lazzaro menziona delle keiriai (bende che sarebbero sulle mani e sui piedi) e non degli othonia (panni grandi o lenzuola).
Sia le lenzuola che il soudarion sarebbero stati visti sia da Pietro sia dal discepolo amato e da nessun altro. Nessuno dei due, però, si badi bene, portò via lenzuola e sudario.

Anche in questo caso la descrizione, puntigliosa, di Giovanni non dice affatto che il volto e il corpo di Gesù fossero impressi sulle lenzuola e/o sul soudarion. Una cosa simile non avrebbe potuto sfuggire al loro sguardo. Secondo il racconto il soudarion era accuramente ripiegato e posto in un luogo diverso rispetto alle lenzuola. Ciò significa che, secondo l’autore del testo, il discepolo amato ha guardato accuratamente questi panni. Su di essi, evidentemente, non vi era alcun segno dell’immagine di Gesù. Quindi anche questo testo porta a escludere che la Sindone di Torino coincida con quella di cui parla il Vangelo di Giovanni.

Quest’ultimo è di estrema importanza nel nostro contesto. Mi riferisco alla scena in cui Gesù, ormai risuscitato, appare per la terza volta: «Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati i non vedenti (meˆ idontes) e credenti!”» (Gv 20, 26-29).
Tommaso ha bisogno di rendersi conto che il corpo che gli appare come vivo sia veramente il corpo ucciso di Gesù e perciò vuole toccare le ferita inferta dalla lancia sul costato. Il problema è il seguente: come si fa a credere se non si vede e non si constata personalmente che il corpo morto di Gesù sia stato veramente risuscitato. La risposta è chiara: «Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati i non vedenti (meˆ idontes) e credenti! [cioè: beati i credenti pur non vedendo]”».
Alla fede non importa la vista e tanto meno il tatto (il mettere la mano sulla ferita per constatare che veramente si tratta di un corpo che è stato ferito e ucciso). Alla fede si deve arrivare senza la vista e il tatto: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Se i discepoli avessero posseduto il lenzuolo in cui il cadavere di Gesù era stato avvolto nel quale l’immagine del volto e del corpo ferito fosse stato impresso, sarebbe stato per loro molto facile affermare: per credere basta vedere il lenzuolo. Oppure: se avessero pensato che la fede si basa sulla vista e sul tatto avrebbero fatto ricorso a questo lenzuolo (se lo avessero posseduto).

Ma il testo mostra chiaramente: 1) che non avevano alcun lenzuolo e 2) che non pensavano affatto che l’immagine del corpo di Gesù fosse rimasta impressa su un lenzuolo e 3) soprattutto non pensavano affatto che un lenzuolo con l’immagine del corpo morto di Gesù servisse a fondare la fede.
Di più. Al capitolo 4 (vv. 19-24) il Vangelo di Giovanni afferma: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. […] Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità».

La fede e il vero culto a Dio non consiste nell’adorarlo in un luogo e tanto meno in un oggetto. Non ha bisogno di oggetti, templi e luoghi. È un culto interiore che avviene nello Spirito e tramite lo Spirito. Il contatto con Gesù, ritenuto assolutamente necessario per il Vangelo di Giovanni («Senza di me non potete fare nulla»; «Io sono la vite e voi i tralci»), implica un contatto interiore tramite lo Spirito di Gesù con Dio stesso. Nulla è più lontano dalla religione del Vangelo di Giovanni di una religiosità che valorizza un oggetto come la Sindone.

Il lenzuolo del cadavere di Gesù non serve, non lo si conserva, non lo si mostra e non lo si propone come oggetto utile per la fede perché la fede consiste in una presenza dello Spirito nell’interiorità dell’uomo, in un culto in spirito e verità che non ha bisogno di luoghi. Laddove c’è bisogno di spostarsi per trovare il sacro, ebbene lì non c’è l’adorazione in spirito e verità: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre».

Di più: è stato più volte sottolineata da parte dei commentatori del Vangelo di Giovanni quale sia la natura della «fede» del discepolo amato che entra nel sepolcro e constata che nelle lenzuola e nel soudarion non c’è più il corpo di Gesù. Il racconto dice che egli «vide e credette» e questo è detto solo di lui. «Il discepolo amato perviene alla fede perfetta. Egli non solo credette senza avere visto Gesù (risorto), ma non ebbe neppure bisogno dell’aiuto delle Scritture» ebraiche le quali rettamente interpretate condurrebbero alla certezza che Gesù «doveva risuscitare dai morti» (Gv 20,8) (commento di R.E. Brown). Anche questo mostra quanto sia estranea al mondo religioso del Vangelo di Giovanni una spiritualità che dà rilievo religioso alla contemplazione di un lenzuolo su cui sarebbe impresso il volto e il corpo di Gesù.

Si potrebbe infine aggiungere che i diversi commenti al Vangelo di Giovanni scritti nella Chiesa antica, per secoli, quando hanno commentato i passi del capitolo 20 in cui si parla delle lenzuola del cadavere di Gesù, mai hanno fatto cenno all’esistenza di un lenzuolo con l’immagine impressa del volto e del corpo di Gesù.

Cosa è credere per il cristianesimo primitivo

Una parte rilevante della fede del primissimo cristianesimo è espressa da un testo che forse riflette addirittura una formula di fede, una delle più antiche: «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1Cor 15, 1-5).

Il testo è tratto dalla Prima lettera ai Corinzi di Paolo che è stata scritta all’incirca nella prima metà degli anni Cinquanta del primo secolo. Paolo afferma che la fede consiste nel credere in Gesù Cristo, morto per salvare gli uomini dai loro peccati, e nella sua risurrezione. Il credere comporta un’adesione interiore, una disposizione ad accettare il perdono offerto da Dio mediante la morte e risurrezione di Cristo, un perdono rivolto soprattutto ai peccatori mentre sono ancora peccatori, e indipendentemente dalle loro opere. Dio salva l’uomo, mediante Cristo, quando l’uomo gli è ancora nemico (Lettera ai Romani cap. 5). Nessun oggetto sacro ha funzione alcuna nella fede protocristiana, nessuna forma di pellegrinaggio, di venerazione o contemplazione di immagini. La certezza della risurrezione è data dallo Spirito Santo che grida nel cuore stesso dell’uomo e gli permette di invocarlo con il nome intimo e diretto di Abba.

L’immagine di Cristo, secondo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi (2Cor 3,17-18) è solo la parola del vangelo (non qualcosa di impresso su un pezzo di stoffa). Quando il vangelo viene predicato, si imprime nel cuore dell’uomo l’immagine di Cristo il quale è immagine di Dio e perciò il singolo uomo è trasformato in quella del Creatore, restaurando in qualche modo la situazione umana originaria in cui l’uomo era stato creato: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore».

Il cristianesimo primitivo non aveva bisogno alcuno di un lenzuolo con un’immagine di Cristo impressa. Il bisogno di statue, di oggetti e immagini sacre era invece caratteristico della religiosità cosiddetta pagana di allora. Anche se i cosiddetti pagani sapevano bene che le loro statue non coincidevano con la divinità che rappresentavano.

Il cristianesimo primitivo era una religione della parola e dello spirito. Non creò mai oggetti in cui trovare materializzata la propria fede. Unica eccezione furono testi, ma solo come espressione di una Parola trascendente e non materializzabile, se non nel contatto mistico tra uomo o donna e Dio.

Ancora un punto: gli Atti degli apostoli dicono che la gente, colpita dalle capacità taumaturgiche di Paolo, poneva sul corpo di Paolo dei panni (chiamati soudaria o simikinthia) e poi li deponeva sulla pelle di malati per provocarne la guarigione. Quindi gli Atti degli apostoli conoscono un tipo di religiosità miracolistica e non la condannano, anzi la mostrano per evidenziare il potere taumaturgico che Dio concedeva agli apostoli. La Chiesa primitiva dunque, in alcuni suoi settori usava o non era contraria all’uso di panni sacri per compiere guarigioni. Ma non abbiamo alcuna traccia del fatto che venisse usato a questo scopo alcun panno mortuario adoperato per seppellire Gesù che avesse per di più la sua immagine impressa. Cosa che sarebbe probabilmente avvenuto se questi panni fossero stati in possesso di qualche cristiano. Il fatto è che del possesso, conservazione o uso qualsivoglia dei panni adoperati per seppellire Gesù non c’è alcuna traccia nel primo cristianesimo.

Altri testi del primo cristianesimo

Prendiamo in esame anche altri testi non canonici. Il Vangelo secondo gli Ebrei (forse databile agli inizi del II secolo), in un brano che conosciamo in traduzione latina solo grazie a una citazione di Girolamo (Uomini illustri II, 11-13), dice addirittura che Gesù, una volta risuscitato, consegna il lenzuolo (forse quello in cui era stato avvolto il suo cadavere) al servo del sommo sacerdote: «Il Vangelo che si chiama secondo gli Ebrei e che è stato da me recentemente tradotto in lingua greca e latina e che anche Origene usa spesso, dopo la risurrezione del Signore riporta: “Il Signore poi dopo avere dato il lenzuolo [in latino: sindonem] al servo del sacerdote andò da Giacomo e gli apparve” [Giacomo aveva infatti giurato che non avrebbe mangiato pane dal momento in cui aveva bevuto la coppa del Signore e finché non lo avesse visto risorgere da coloro che dormono] e di nuovo, poco dopo, “Portate, disse il Signore, mensa e pane” e subito si aggiunge: “Prese il pane, lo benedisse, lo spezzò, e lo diede a Giacomo il giusto, e gli disse: ‘Fratello mio, mangia il tuo pane, poiché il figlio dell’uomo è risorto da coloro che dormono’”».

Qui mi sembra chiaro che il Vangelo degli Ebrei vuole sostenere che le autorità ebraiche sacerdotali avevano avuto la possibilità di credere alla risurrezione di Gesù perché Gesù stesso avrebbe lasciato al servo del sommo sacerdote il lenzuolo mortuario in cui era stato avvolto. Che si tratti di leggenda è ovvio. In ogni caso, anche qui l’argomento decisivo è che in questo leggendario lenzuolo non si dice esserci stata in alcun modo un’immagine impressa del volto e del corpo di Gesù. E Girolamo, che trasmette questo testo, non sa evidentemente nulla di un lenzuolo con l’immagine di Gesù impressa. Ed egli scrive nel V secolo (muore nel 419-420 circa). Non si può neppure utilizzare questo testo con il metodo orrendo di Dan Brown usato alla rovescia. Per sostenere senza alcun fondamento che qualcuno avrebbe ritrovato poi millenni dopo il lenzuolo dato al Sommo sacerdote.

Anche il Vangelo di Pietro (forse del I secolo, almeno nelle sue fasi redazionali più antiche) dice che Giuseppe (di Arimatèa) lavò il cadavere di Gesù e «lo avvolse in un lenzuolo». Come del resto anche gli Atti di Tommaso (157,2) e la Vita di Gesù in arabo (49,3) la quale specifica che quel lenzuolo era stato profumato «di mirra. […] Era la mirra che i Magi avevano donato a Gesù alla sua nascita e che Maria aveva conservato fino a quel momento». Negli Atti di Filippo 37 [143], Filippo raccomanda di seppellire il proprio cadavere avvolto in bende di carta di Siria e non con un «lenzuolo di lino, perché ne è stato messo uno sul corpo del signore».

Nel Vangelo di Nicodemo Gesù, dopo essere risorto, conduce Giuseppe di Arimatèa alla propria tomba, nella quale Giuseppe, come prova della risurrezione vede «il lenzuolo» (15,6). Questo testo sembra sviluppare il racconto leggendario di cui abbiamo attestazione nella Vita di Gesù in arabo con l’ulteriore dettaglio della visita di Giuseppe alla tomba durante la quale egli vedrebbe il lenzuolo.

Negli Atti di Taddeo (forse redatti nel VII secolo sotto il regno di Heraclio, 614-641), si dice che Anania era stato inviato dal re Abgar affinché verificasse con cura «l’aspetto del Cristo» (2,10). Anania quindi parte e va da Gesù, portandogli una lettera di Abgar. Durante l’incontro, Gesù si lava la faccia e si asciuga il volto con «un panno di lino piegato in quattro».
Miracolosamente, «la sua immagine rimase impressa sul tessuto del lino fine. Egli lo diede ad Anania» (3,1-4) in modo che Abgar potesse vedere il suo volto. È quindi chiaro che l’idea di una riproduzione del volto di Gesù su un panno di lino è attestata nel VII secolo d.C. (data probabile di composizione di questo testo), ma si tratta di un panno che riproduce il volto di Gesù vivo. Non si tratta affatto del cadavere. Nessuna connessione col panno di lino in cui secondo il Vangelo di Giovanni (20,7), era avvolta la testa o volto di Gesù cadavere e tantomeno il lenzuolo con l’impronta del volto e di tutto il corpo.

Ancora: gli studi sull’iconografia del volto di Gesù hanno appurato che esistono almeno due sue immagini nella Chiesa antica: una con la barba l’altra senza. Il Gesù della Sindone di Torino ha la barba. È quindi più che ovvio che tutte le immagini cristiane antiche in cui Gesù appare senza barba, dimostrano che questa Sindone non era conosciuta.
Si può infine aggiungere che nel momento in cui si cominciarono a cercare nella terra di Israele «reliquie» di Gesù e del primissimo cristianesimo, cioè con Costantino e sua madre, non solo non si trovò alcuna «sindone», ma neppure venne mai in mente di cercarla o di costruirla, tanto era fuori dalla logica della religione cristiana di allora.

Conclusioni

Alcuni testi del primissimo cristianesimo dicono che alcuni discepoli, e cioè Pietro e il discepolo amato, videro il lenzuolo o le lenzuola nel sepolcro di Gesù, ma non c’è alcun motivo per supporre che su di essi vi fosse impressa l’immagine del volto di Gesù o tracce del suo corpo.

Nessuno dei vangeli e nessuno dei testi cristiani prodotti nel I secolo dice che qualcuno dei discepoli di Gesù andò nella tomba di Gesù a recuperare il lenzuolo in cui egli era stato avvolto. Nessun testo delle origini cristiane ci dice che qualche cristiano andasse alla ricerca di questo lenzuolo.
Nessun testo delle origini cristiane ci dice che i cristiani delle origini conservassero da qualche parte questo lenzuolo.
Nessun testo delle origini cristiane ci dice che i cristiani usassero, per scopi religiosi o per qualsiasi altro scopo, un lenzuolo con l’immagine del volto e del corpo di Gesù.

Un culto, una venerazione o anche una qualche attenzione religiosa al lenzuolo o ai panni in cui fu avvolto il cadavere di Gesù risulta del tutto assente dalla spiritualità cristiana almeno nei primi cinque secoli, quelli in cui il cristianesimo si è formato pienamente dal punto di vista spirituale, istituzionale e dogmatico. Per tutti questi motivi, l’uso attuale che la Chiesa cattolica permette e promuove della Sindone a scopi religiosi mi sembra contrario alla religione del cristianesimo primitivo e al suo spirito.
I discepoli storici di Gesù dopo la sua morte non ebbero bisogno della Sindone, non ne ebbe bisogno la Chiesa antica. Oggi non ce n’è bisogno per la fede cristiana. Ma, allora, a cosa serve la Sindone? Che tipo di religione esprime o suggerisce alle folle, ai credenti e ai non credenti?

(20 aprile 2015)


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Odifreddi:


" È il circo mediatico dell’ostensione, che mi dà fastidio. Non tanto, o non solo, perché considero la Sindone un falso. Ma anche, e soprattutto, perché essa costituisce uno dei tanti tasselli di un mosaico di superstizioni rudimentali e credulità popolari che la Chiesa cavalca, e che si compone di apparizioni e pianti della Madonna, di sangue di san Gennaro, di miracoli di Padre Pio e via dicendo.
Lei dice che, nel caso dell’ostensione, «il tono apologetico è stato evitato il più possibile», e che la visita di Giovanni Paolo II nel 1998 ha confermato questa impostazione. A me sembra esattamente il contrario: semmai, era la Chiesa del Trecento che evitava i toni apologetici, e che per bocca del vescovo di Troyes e di Clemente VII avvertiva esplicitamente i fedeli che la «reliquia» era un artefatto!
Oggi, sette secoli dopo, siamo costretti a rimpiangere il Medioevo, e a sentire il cardinal Poletto affermare che la Sindone è «probabilmente autentica». Io, di autentico, ci vedo soltanto il business: un business che è stato finanziato con quattro milioni di euro da due amministrazioni piemontesi (regionale e comunale) sedicenti «di sinistra», e con altri sei milioni di euro dalle locali fondazioni bancarie, le une e le altre sottoposte a un esplicito pressing da parte del cardinale.
Comunque sia, l’ostensione è ormai cominciata. Ed è cominciata nel peggiore dei modi: con la sfilata dei vip, dai politici locali agli industriali della Fiat, che hanno beneficiato di una giornata di ostensione privata per evitare di fare la coda e mescolarsi al popolo che governano e sfruttano. In queste occasioni, effettivamente mi piacerebbe avere la fede, per poter credere che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che uno di quei ricchi entri nel Regno dei Cieli».
Ma, se la fede non ce l’ho, è anche perché sono troppo abituato a vedere il cardinale ricevere quegli stessi potenti e ricchi sul sagrato del duomo, nell’attesa di essere sostituito nelle cerimonie da un papa ben più potente e ricco di loro. Un papa che farebbe meglio a dedicare un po’ meno attenzione a un falso lenzuolo di ieri, e un po’ di più ai veri scandali del clero di oggi. In fondo, non è stato proprio quello che lui crede essere l’uomo della Sindone, a dire che a coloro che danno scandalo ai bambini bisogna appendere una macina da mulino al collo e buttarli a mare? "


Diavolo e acqua santa a confronto sulla sindone. Dialogo tra Piergiordo Odifreddi e mons. Giuseppe Ghiberti

http://temi.repubblica.it/micromega-online/diavolo-e-acqua-santa-a-confronto-sulla-sindone-dialogo-tra-piergiordo-odifreddi-e-mons-giuseppe-ghiberti/


Da una parte il matematico irriverente, per il quale la Sindone è una ‘bufala’ che ‘come testimonianza storica vale tanto quanto il film di Gibson’. Dall’altra il monsignore presidente della Commissione per la sindone della diocesi di Torino, per il quale ‘la forza della Sindone’ sta proprio nella ‘povertà di certezze’ e nel suo ‘messaggio’. Un carteggio fra punti di vista opposti sulla più controversa e studiata reliquia della cristianità.

Dialogo tra Piergiordo Odifreddi e mons. Giuseppe Ghiberti, da MicroMega 4/2010


Caro don Ghiberti,
propongo di iniziare questo nostro scambio sulla Sindone partendo da lontano: cioè, dal tempo in cui conosciamo la sua esistenza. Che, comunque, non è così lontano quanto quello al quale vorrebbero risalire coloro che la ritengono autentica.
Mi permetto di ricordare, che la conquista di Costantinopoli del 1204 rivelò all’Occidente la cornucopia di reliquie conservate nei santuari di Bisanzio. Comprate o trafugate dai Crociati, in breve tempo esse andarono ad arricchire il patrimonio di meraviglie sacre conservate nelle chiese medioevali, per l’elevazione spirituale dei fedeli e materiale del clero, e furono sbeffeggiate dal Belli nel sonetto La mostra de l’erliquie.
Miracolosamente sopravvissute nei millenni, le memorie del Vecchio Testamento erano sorprendenti. La mensa di Abramo. La scure con cui Noè costruì l’arca, e il ramoscello d’ulivo riportato dalla colomba dopo il diluvio. Le tavole della legge e la verga di Mosè. La manna e l’arca della Santa Alleanza. Tre delle trombe con cui Giosuè fece crollare le mura di Gerico. Il trono di David eccetera.
Altrettanto incredibili erano i reperti del Nuovo Testamento. La mangiatoia di Betlemme. Ampolle col latte della Madonna, e l’ultimo respiro di San Giuseppe. Il cordone ombelicale e otto prepuzi di Gesù bambino. I suoi denti da latte, più vari frammenti di unghie e peli di barba. Le pietre sulle quali fu circonciso e battezzato. Le lettere che avrebbe scritto di proprio pugno. I dodici canestri della moltiplicazione dei pani. La coda dell’asino della Domenica delle Palme. Il famoso Santo Graal, cioè il calice dell’ultima cena. Il catino in cui Cristo lavò i piedi agli apostoli, e il panno con cui li asciugò. La clamide scarlatta, la corona di spine, lo scettro di canna, il flagello e le orme dei suoi piedi di fronte a Pilato. La Veronica col suo volto. La cenere del falò acceso dopo la rinnegazione di Pietro. Molti chiodi della croce, e un numero enorme di suoi frammenti di legno. In miracoloso contrasto con essi, la croce tutta intera, ritrovata nel 326 dalla madre di Costantino. La spugna, l’aceto, la canna e la punta della lancia del centurione. Il marmo su cui il corpo fu deposto, con i segni delle lacrime della Madonna. La candela che illuminava il sepolcro. Il dito che l’apostolo Tommaso mise nel costato. La pietra dell’assunzione al cielo eccetera.
Benché alcune di queste reliquie siano (state) conservate nelle basiliche più sacre della cristianità, da Santa Maria Maggiore a San Giovanni in Laterano, chiunque argomentasse seriamente oggi a favore della loro attendibilità storica verrebbe quasi sempre preso per matto. Quasi, ma non sempre, almeno a giudicare dai milioni di fedeli che accorrono a Torino a vedere la Sindone. O meglio, una delle quarantatré sindoni di cui si ha notizia: alcune con immagini, altre no. Molte andate distrutte da incendi e, come già ironizzava Calvino, prontamente rimpiazzate. Una, quella «miracolosa» di Besançon, distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la Convenzione nazionale della rivoluzione francese.
La Sindone di Torino, un telo di lino di circa quattro metri per uno, apparve per la prima volta nel 1353 presso Troyes, nel cuore della regione di Chartres e Reims, famose per le loro cattedrali. Il telo reca una doppia immagine, fronte e retro, di un cadavere nudo, rappresentato secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica dell’epoca: figura rigidamente verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso più caratterizzati di quelli del corpo. La presenza di segni di ferite in perfetto accordo con il racconto evangelico della passione poteva far supporre che quella fosse un’immagine impressa dal corpo di Cristo sepolto, stranamente mai menzionata nei testi sacri, né rappresentata iconograficamente nel primo millennio.
Nel 1389 il vescovo di Troyes inviò però un memoriale al papa, dichiarando che il telo era stato «artificiosamente dipinto in modo ingegnoso», e che «fu provato anche dall’artefice che lo aveva dipinto che esso era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto». Nel 1390 Clemente VII emanò di conseguenza quattro bolle, con le quali permetteva l’ostensione ma ordinava di «dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario».
Alla testimonianza storica del pontefice di allora, evidentemente diverso dai suoi successori di oggi, possiamo ormai aggiungere la conferma scientifica della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390, e l’immagine non può dunque essere anteriore.
Stabilito che la Sindone è un artefatto, rimane da scoprire come sia stata confezionata. L’immagine è indelebile, essendo sopravvissuta sia a ripetute immersioni in olio bollente e liscivia effettuate nel 1503 in occasione di un incontro tra l’arciduca Filippo il Bello con Margherita d’Austria, sia al calore di un incendio del 1532, che la danneggiò in più punti. Inoltre, è negativa (le parti in rilievo sono scure, quelle rientranti chiare), unidirezionale (il colore non è spalmato), tridimensionale (l’intensità dipende dalla distanza tra la tela e la parte rappresentata), e ottenuta per disidratazione e ossidazione delle fibre.
Siamo dunque di fronte non a una pittura ma a un’impronta, che certo non può essere stata lasciata da un cadavere. Dal punto di vista anatomico, infatti, le immagini frontale e dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono di quattro centimetri), ma hanno la stessa intensità, benché il peso avrebbe dovuto essere tutto scaricato sul retro. L’avambraccio destro è più lungo del sinistro. Le braccia sono piegate, ma le mani ricoprono il pube, il che richiederebbe una tensione delle braccia o una legatura delle mani. Le dita sono sproporzionate, e l’indice e il medio sono uguali. Posteriormente si vede l’impronta del piede destro, benché le gambe siano allungate. Dal punto di vista geometrico, l’impronta stereografica lasciata da un corpo o da una statua sarebbe distorta e deformata, soprattutto nella faccia: esattamente come accade per la famosa «maschera di Agamennone», che è distorta proprio perché aderiva al volto del defunto, e contrasta apertamente con la raffigurazione veristica della Sindone.
Solo un bassorilievo di poca profondità può lasciare un’impronta simile. Non è naturalmente possibile sapere con certezza come si sia passati dall’uno all’altra, ma non è necessario scomodare i miracoli. Anzitutto, qualunque calco sarebbe automaticamente negativo e unidirezionale. Per quanto riguarda la tridimensionalità, ci sono due possibilità naturali.
La prima è stata riprodotta dall’anatomopatologo Vittorio Pesce Delfino, che l’ha descritta in E l’uomo creò la Sindone (Dedalo, 2000). Basta scaldare un bassorilievo metallico a 220 gradi e appoggiarvi brevemente un telo, per ottenere un’immagine dal caratteristico colore giallastro della reliquia: lo stesso delle bruciature da ferro da stiro. La tridimensionalità è causata da una duplice trasmissione del calore: per contatto diretto in alcuni punti, e per convezione a distanza in altri. Le foto del libro mostrano come anche una rudimentale e brutta figura sia in grado di lasciare un’impronta sorprendentemente simile alla Sindone.
La seconda possibilità è descritta dal chimico Luigi Garlaschelli nel delizioso libretto Processo alla Sindone (Avverbi, 1998), e rende anche conto di due fatti aggiuntivi: sulla reliquia sono state trovate tracce di colore, e le riproduzioni antiche mostrano un’immagine più intensa di quella attuale. In questo caso l’impronta è ottenuta ponendo il telo sul bassorilievo e strofinandovi sopra dell’ocra in polvere, come si fa col carboncino sulla carta. Col tempo il colore si stacca e lascia un’impronta fantasma residua, come le foglie negli erbari.
A ciascuno dei fatti oggettivi che ho esposto è naturalmente possibile opporre opinioni soggettive, invocanti cause naturali o soprannaturali, nel tentativo di ricondurre la ragione alla fede. La più fantasiosa fra quelle avanzate, tra pollini e monetine, è certamente l’ipotesi che imprecisati fenomeni nucleari avvenuti all’atto della resurrezione atomica di Cristo abbiano modificato la struttura del telo, cospirando a falsarne la datazione in modo da farla coincidere proprio con il periodo della sua apparizione storica. Evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Coloro che invece hanno orecchie per intendere, intendono che il fatto miracoloso non sussiste.
Per me, dunque, il caso è chiuso. Ma sono curioso di conoscere la sua opinione sull’argomento: quello oggettivo che ci presenta la Sindone, ma anche quello soggettivo che ho esposto io.

Piergiorgio Odifreddi

Caro professor Odifreddi,
vedo che siamo ambedue nativi della provincia di Cuneo e questo mi dà gioia e mi provoca simpatia. I cuneesi sono «quelli del gozzo» (quante bisticciate da ragazzo con quelli della provincia di Torino), ma anche se non si fanno tanti complimenti, per lo più finiscono per capirsi. Avremo qualche difficoltà, perché il nostro modo di rapportarci alla Sindone è dissimile; ma chi sa che non ci scopriamo meno distanti di quanto sembri.
Lei inizia il suo discorso con la lista delle stramberie medioevali e recenti in campo di reliquie e tra di esse pone la Sindone di Torino; quest’ultimo caso però è peggiore, perché, a differenza delle altre, questa continua a essere supervenerata. Poi descrive per sommi capi l’oggetto in questione e le sue vicende, per concludere che è un artefatto, portante un’impronta, che non può essere stata lasciata da un cadavere. L’enumerazione delle anomalie presenti nell’immagine non conclude a una identificazione del fenomeno, ma a una dichiarazione di simpatia per i tentativi operati da Delfino Pesce e da Garlaschelli nella riproduzione di quell’immagine. A fronte di questi fatti oggettivi lei enumera le opinioni soggettive dei favorevoli alla Sindone, che cercano il modo di ricondurre la ragione alla fede, ricorrendo magari alla risurrezione atomica di Cristo. Tutta la descrizione conclude per l’inesistenza del fatto miracoloso e quindi viene giustificata la sentenza: il caso è chiuso. Spero di averla riassunta fedelmente.
Ho l’impressione che quanto lei descrive della Sindone non abbia molto in comune con quanto io penso di questa realtà. So che si ricorre solitamente alla vicenda delle reliquie per spiegare la nascita della Sindone, ma al massimo questo potrebbe individuare la causa della contraffazione, non però la modalità della sua formazione. So che si dicono cose peregrine sull’origine dell’immagine, ma l’essenziale della realtà sindonica non è condizionato a esse. Io per primo non le condivido, come, d’altra parte, tanto meno condivido le proposte di Pesce e di Garlaschelli.
Devo cercare allora di dirle quali sono le mie convinzioni sulla Sindone, come cerco di esporle alla gente e come spero che coincidano, nella sostanza, con quelle che guidano la Chiesa nel proporre la Sindone alla venerazione dei credenti. A me sembra innegabile che l’immagine presente sulla Sindone raffiguri un uomo morto a causa della tortura della crocifissione. Lei ha enumerato parecchie anomalie presenti nella figura sindonica, ma queste aumentano la stranezza misteriosa del reperto, senza però impedire la constatazione di fondo che dicevo: immagine di un uomo morto per crocifissione. La reazione di chi guarda questa immagine può essere varia: una persona con un po’ di cuore sente compassione per tanta sofferenza e indignazione per quella dimostrazione di crudeltà raffinata; sorge intanto la curiosità di capirci qualcosa. Chi ha un po’ di conoscenza della vicenda di Gesù di Nazaret si rende facilmente conto della corrispondenza che passa tra la vicenda dell’uomo della Sindone e quella che ha portato Gesù alla morte: glielo dice una tradizione di devozione, ma soprattutto ne ha conferma da quel poco o tanto che conosce dei racconti evangelici della passione di Gesù. A questo punto, se chi guarda ha la fede, nasce un sentimento spontaneo di interesse affettuoso per un oggetto testimone di un evento tanto importante per la sua vita.
Mi sembra che questo sentimento sia di natura prescientifica, perché viene prima che siano state poste e affrontate tutte le domande che il reperto suggerisce. Queste domande sorgono ben presto e io che guardo ci vado dietro con molto interesse, ma non mi sento condizionato dalle risposte che posso udire, perché la funzione di segno comunque è svolta da quell’oggetto, qualunque cosa possa pensare della datazione della sua origine e della modalità di formazione della sua immagine (che sono poi le due domande fondamentali provocate da quel reperto).
Penso che questa lettura sia determinante, perché relativizza non solo la scienza ma la Sindone stessa: il suo interesse fondamentale consiste nell’essere un segno e questo funziona indipendentemente dalla consistenza della sua natura (la scritta «senso unico» ha la stessa forza di segno sia che la trovi incisa su una lastra di metallo prezioso sia che l’abbiano stampata su cartongesso). La povertà di certezze è la forza della Sindone, e a me personalmente la rende anche cara. Partendo da questa lettura delle cose, non mi sento condizionato al discorso dell’autenticità. C’è chi dice: per continuare a proporre la devozione alla Sindone, la Chiesa deve decidersi a definirne l’autenticità; e c’è chi dice: l’autenticità è del tutto esclusa e quindi la Sindone deve essere eliminata. Non condivido nessuno dei due presupposti: che sia stata detta l’ultima parola sull’autenticità oppure che siano state portate prove definitive della non autenticità; e comunque non mi sento condizionato né dall’uno né dall’altro, perché nel primo caso comunque non avrebbe senso parlare di definizione (la Sindone non è un articolo di fede) e nel secondo caso resterebbe immutata la sua efficacia di segno.
Il discorso a questo punto è tutt’altro che finito, ma può svolgersi in uno stato d’animo sereno. M’interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù. Mi viene sempre spontaneo esemplificare con una mia vicenda personale. In una visita a mia mamma, una volta lei mi venne incontro con una sua fotografia, bella grande e ben incorniciata. Alla mia reazione di sorpresa lei rispose: «Ti servirà dopo». Il «dopo» arrivò presto, perché il Signore me la venne a prendere all’improvviso dopo pochi mesi. Cercando tra le sue cose, trovai una foto di gruppo dove il suo volto era ben visibile e molto naturale; chiesi al fotografo di evidenziarla e ottenni così una seconda fotografia, forse addirittura più naturale della prima. Delle due certamente mi è più cara la prima, che ha avuto un rapporto assai più diretto con lei; eppure tutte e due mi rimandano con molta fedeltà a lei, e tutte e due non sono lei, ma solo dei segni. Così è per la Sindone: non so con sicurezza se appartiene alla categoria della prima (come spero e mi sembra probabile) o della seconda fotografia, ma comunque mi rimanda con particolare forza a Gesù, e comunque non è Gesù.
Certo è la causa di Gesù che viene in gioco con la Sindone. Se non fosse così, i misteri che essa porta in sé interesserebbero sì gli scienziati, ma verrebbero discussi in un loro gremio ristretto, se ne scriverebbe su qualche rivista letta da una dozzina di lettori, e tutto finirebbe lì. Certo la Chiesa ha la sua parte in questa proposta devozionale, ma credo proprio di poter dire – dall’esperienza delle tre ostensioni di cui ho avuto una particolare responsabilità – che il tono apologetico è stato evitato il più possibile, a costo anche di essere decisi nel determinare un orientamento corrispondente a chi avesse voluto pronunciamenti impropri. Ognuno ha il suo modo di sentire, ma l’impostazione fondamentale ha cercato di essere coerente e ha avuto la gioia di sentirsi confermata dall’insegnamento del papa, quando venne in pellegrinaggio nel 1998. Per conto nostro si ripeteva spesso che la Sindone non ha bisogno delle nostre esagerazioni; ciò che conta è l’attenzione e la disponibilità di vita di fronte al suo messaggio.
So che ora si aprono due argomenti enormi: quello appunto del messaggio e quello della discussione scientifica sui problemi della sindonologia. Vorrei però arrestarmi su quanto detto fin qui, perché mi sembra indispensabile per qualunque prosecuzione del discorso.

Giuseppe Ghiberti

Caro don Ghiberti,
grazie per la sua risposta, e per il suo amichevole ricordo delle nostre comuni origini. Devo però dirle che lei non mi sembra affrontare per niente le obiezioni che ho sollevato.
Il suo atteggiamento nei confronti della Sindone è abbastanza tipico dei credenti coi quali ho, a varie riprese, discusso l’argomento. Se posso riassumerlo, mi sembra che consista, da un lato, nell’accantonare le critiche fattuali che vengono opposte al reperto, in quanto «non conclusive» e incapaci di spiegare le modalità della sua esecuzione. E, dall’altro lato, nel rivendicare comunque alla Sindone un valore di «segno» che punta alle vicende narrate dai vangeli.
Per quanto riguarda l’aspetto fattuale, lei dice che le «interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù». A me invece interesserebbe molto sapere in che modo questo sarebbe mai possibile! Mi sembra infatti ovvio che si possa falsificare la Sindone, ad esempio mediante la datazione al radiocarbonio. Anzi, non solo si può, ma è appunto già stato fatto, benché molti si rifiutino di accettare l’unanime responso dei tre laboratori indipendenti, accampando ogni genere di scuse per vanificarlo.
Ma mi sembra altrettanto ovvio che non sia invece possibile autenticare la Sindone. Anche una sua datazione agli inizi della nostra era, infatti, non significherebbe certo che essa ha avvolto il corpo di Gesù, ma solo che è che coeva agli avvenimenti narrati dai vangeli! Per questo i tentativi di retrodatazione sono inutili, anche se capisco che renderebbero un po’ meno anacronistica e imbarazzante la venerazione della reliquia.
Mi permetto comunque di far notare che i fedeli rifiutano la radiodatazione solo quando non si accorda coi loro desideri, come nel caso in questione. Non contestano invece il metodo quand’esso dà un responso «favorevole», come nel caso dei resti recentemente ritrovati sotto la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Infatti, da quella datazione a duemila anni fa Benedetto XVI ha immediatamente e solennemente dedotto l’autenticità delle reliquie dell’Apostolo delle Genti, compiendo un errore logico soprendente per un papa che si suppone «filosofo»!
Per finire con l’aspetto fattuale, non mi sembrano poi rilevanti le obiezioni alle critiche basate sull’osservazione che non è ancora stato soddisfacentemente spiegato come sia stata confezionata la reliquia. Nessuno lo nega, e anch’io non sono particolarmente impressionato dalle riproduzioni di Pesce Delfino o Garlaschelli. Ma si tratta di due aspetti completamente diversi e indipendenti: un conto è smascherare un falsario, un altro riuscire a emularlo! E una bufala che non si sa riprodurre, rimane pur sempre e comunque una bufala.
Passando all’aspetto simbolico della Sindone, capisco benissimo l’atteggiamento dei fedeli che credono alle narrazioni dei vangeli, e ritrovano nell’una e negli altri una vicendevole conferma. D’altronde, persino Giovanni Paolo II ha esclamato, dopo aver visto il polpettone di Mel Gibson sulla passione di Cristo: «È andata proprio così». Come se lui avesse potuto sapere com’erano andate le cose! E come se non fosse invece vero, semplicemente, che il film si era basato sulle narrazioni evangeliche. Lo stesso si può supporre anche per la Sindone, che come testimonianza storica vale tanto quanto il film di Gibson.
A proposito di vangeli, devo però confessare che, come non credente, ho su di loro dubbi ancora più radicali che sulla Sindone: non credo affatto che essi siano libri di storia, che riportano fatti veramente accaduti, e li considero piuttosto come testi letterari, che narrano storie inventate, né più né meno di un romanzo. D’altronde, immagino anche lei consideri allo stesso modo i testi sacri delle religioni diverse dalla sua: a meno che non creda, ad esempio, che le favole sul bambino Krishna sono vere tanto quanto quelle del bambino Gesù.
Per me, dunque, il problema di sapere se la Sindone abbia o no avvolto il cadavere di Gesù non si pone nemmeno. È il circo mediatico dell’ostensione, che mi dà fastidio. Non tanto, o non solo, perché considero la Sindone un falso. Ma anche, e soprattutto, perché essa costituisce uno dei tanti tasselli di un mosaico di superstizioni rudimentali e credulità popolari che la Chiesa cavalca, e che si compone di apparizioni e pianti della Madonna, di sangue di san Gennaro, di miracoli di Padre Pio e via dicendo.
Lei dice che, nel caso dell’ostensione, «il tono apologetico è stato evitato il più possibile», e che la visita di Giovanni Paolo II nel 1998 ha confermato questa impostazione. A me sembra esattamente il contrario: semmai, era la Chiesa del Trecento che evitava i toni apologetici, e che per bocca del vescovo di Troyes e di Clemente VII avvertiva esplicitamente i fedeli che la «reliquia» era un artefatto!
Oggi, sette secoli dopo, siamo costretti a rimpiangere il Medioevo, e a sentire il cardinal Poletto affermare che la Sindone è «probabilmente autentica». Io, di autentico, ci vedo soltanto il business: un business che è stato finanziato con quattro milioni di euro da due amministrazioni piemontesi (regionale e comunale) sedicenti «di sinistra», e con altri sei milioni di euro dalle locali fondazioni bancarie, le une e le altre sottoposte a un esplicito pressing da parte del cardinale.
Comunque sia, l’ostensione è ormai cominciata. Ed è cominciata nel peggiore dei modi: con la sfilata dei vip, dai politici locali agli industriali della Fiat, che hanno beneficiato di una giornata di ostensione privata per evitare di fare la coda e mescolarsi al popolo che governano e sfruttano. In queste occasioni, effettivamente mi piacerebbe avere la fede, per poter credere che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che uno di quei ricchi entri nel Regno dei Cieli».
Ma, se la fede non ce l’ho, è anche perché sono troppo abituato a vedere il cardinale ricevere quegli stessi potenti e ricchi sul sagrato del duomo, nell’attesa di essere sostituito nelle cerimonie da un papa ben più potente e ricco di loro. Un papa che farebbe meglio a dedicare un po’ meno attenzione a un falso lenzuolo di ieri, e un po’ di più ai veri scandali del clero di oggi. In fondo, non è stato proprio quello che lui crede essere l’uomo della Sindone, a dire che a coloro che danno scandalo ai bambini bisogna appendere una macina da mulino al collo e buttarli a mare?

Piergiorgio Odifreddi

Caro professor Odifreddi,
la redazione di MicroMega mi dice che i tempi per la pubblicazione sono ristrettissimi e perciò mi devo accontentare di pochi cenni di risposta. Spero che questo non arresti il dialogo.
Non ho intenzione di accantonare le «critiche fattuali» opposte al reperto; soltanto le relativizzo per la funzione che rivestono nei confronti del nostro oggetto.
Inizio da un’osservazione marginale, per sgombrare il campo da un’obiezione che non mi sembra determinante: quello che è stato detto sull’attendibilità del referto radiocarbonista riguardante le ossa di san Paolo mi lascia abbastanza indifferente; ne prendo atto, ma nella consapevolezza della sua esile consistenza. Vedremo quel che diranno gli sviluppi futuri della verifica del metodo della datazione con il C14.
Sono d’accordo con lei che se le analisi del C14 nel 1988 avessero concluso per una datazione di epoca romana, non ne sarebbe derivata la certezza che quel lenzuolo abbia avvolto il corpo di Gesù deposto dalla croce; si avrebbe solo un indizio di possibilità da cui partire per la valutazione degli altri indizi.
Non riesco a seguirla nell’attribuzione della qualifica di bufala al reperto sindonico. Se per ora non sappiamo come si sia formata l’immagine sindonica, che cosa ci permette di dire che è opera di un falsario? Che cosa ha permesso di «smascherarlo»? Sarà forse perché comunque ho già deciso che quel reperto può solo avere quell’origine? A me sembra che questo fatto, senza portarmi a conclusioni precipitate, mi suggerisca un atteggiamento di disponibilità di fronte a conclusioni non scontate in partenza.
Passando a quello che lei chiama l’«aspetto simbolico» della Sindone, mi sembra che sia da impostare diversamente il discorso sull’attendibilità storica dei vangeli. L’attendibilità storica della crocifissione di Gesù non è messa in dubbio da nessuno, oggi, e la fonte principale di notizie su quell’evento è offerta dai vangeli. Si potrà discutere sull’intenzionalità storiografica di certi particolari, magari di certe scene, ma l’informazione globale è accettabile. Ora, nel nostro caso, constato due fatti: una descrizione letteraria della crocifissione e morte di Gesù e una descrizione per immagini dei particolari della tortura che ha portato a morte l’uomo della Sindone. Dal loro confronto nasce un’ulteriore costatazione: che i due racconti si corrispondono in una misura eccezionalmente fedele. Questa constatazione suscita quella reazione di interesse, che può assumere forme diverse a seconda del rapporto che l’osservatore ha nei confronti della persona di cui parlano i vangeli. Poi lui cercherà di seguire la pista, da una parte, della riflessione personale sulla sua vita e, dall’altra parte, della ricerca scientifica, unica competente per rispondere alle domande sulla datazione del reperto e sull’origine e modalità di formazione dell’immagine. Ma intanto la funzione di segno ha iniziato a operare, nel modo più legittimo.
Quanto al Medioevo da rimpiangere, forse ha ragione, per tanti motivi, non certo però per le affermazioni usate dal vescovo Pierre d’Arcy nel definire la Sindone, di cui aveva una conoscenza del tutto fantasiosa. Fra gli studi recenti in proposito sono determinanti quelli di Gian Maria Zaccone.
La responsabilità della definizione del business la lascio a lei. Le faccio solo osservare che nelle cifre è stato un po’ troppo… generoso: li avessimo avuto dieci milioni di euro! Ma a questo punto stiamo abbandonando il discorso vero e proprio della Sindone, per entrare nel comportamento della Chiesa. Alla fine lei dice che, «se la fede non ce l’ho, è anche perché…»: non so quanto questo «anche» incida in percentuale sulla decisione di fare la rinuncia alla fede, ma comunque è sempre una cosa dolorosa, di cui non finiremo mai di chiedere scusa.
Sono lieto per avere avuto questo piccolo scambio di opinioni. Lo concludo, in qualità di collega più anziano, con un cordiale augurio al collega più giovane.

Giuseppe Ghiberti

(20 aprile 2015)
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‘Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?’ (Luca 24,5). Per i protestanti, la cui cultura religiosa rifugge dal culto di oggetti, immagini e luoghi sacri, l’ostensione della Sindone rappresenta un’operazione ambigua e commerciale, tipica della religione intesa come instrumentum regni. Dove, ieri come oggi, trono e altare si sostengono e incoraggiano a vicenda.

In una delle sue ultime predicazioni, un mese prima di morire, Lutero, commentando il passo della conversione di Paolo, volle contrapporre la «vera» reliquia cristiana, la Parola di Dio, alle «false» reliquie, quelle dei «papi e cardinali che sono totalmente insicure e inventate sognando, per burlare e turlupinare il mondo». Lutero ce l’aveva in particolare con il nesso reliquie-indulgenze, ovvero il sistema penitenziale tardo medioevale, attraverso il quale «il papa vende i meriti di Cristo insieme ai meriti supererogatori di tutti i santi e della Chiesa intera eccetera. Tutto questo non è tollerabile. Non solo è una pura invenzione umana, senza fondamento nella Parola di Dio, assolutamente non necessaria e non comandata, ma contraddice pure il primo articolo sulla redenzione e quindi non può in alcun modo essere tollerato», (Lutero, 1992). Anche Calvino se la prese con il culto delle reliquie che affollavano l’Europa del XVI secolo. Le sue argomentazioni che ritroviamo nel Trattato sulle reliquie del 1543 (Calvino, 2005) sono innervate da una sdegnata ironia circa le «pie frodi» con cui la Chiesa pascola il gregge. Calvino evidenzia il netto contrasto tra culto dell’immagine e dettato biblico: «Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo […] e non ti prostrare davanti a loro e non li servire perché io, il Signore, sono un Dio geloso» (Esodo 20,4-5) illustra alcune delle numerosissime reliquie presenti in Europa (comprese una dozzina di sindoni) e ne trae la conclusione che si tratta di superstizione pagana. Si fa di Dio un idolo gestito dalla Chiesa.

http://temi.repubblica.it/micromega.../il-sacro-business/

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Una pubblicazione della storica Barbara Frale esamina una serie di presunte scritte, invisibili sulla Sindone, che risulterebbero percepibili su alcune fotografie del telo. Queste iscrizioni, che già in passato alcuni studiosi hanno variamente interpretato, sono inesistenti; non è credibile l’ipotesi di Frale, secondo la quale esse costituirebbero l’atto di sepoltura di Gesù di Nazaret.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-leggenda-delle-scritte-sulla-sindone/


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Nessuna altra reliquia è stata mai esaminata come la Sindone e i risultati di queste indagini dimostrano che si tratta di un falso. Parte del persistente dibattito deriva dal fattoche, secondo i sostenitori dell’autenticità, le caratteristiche della Sindone non possono essere spiegate né tanto meno riprodotte. Ma neanche questo è vero. Ecco come abbiamo riprodotto il ‘sudario di Gesù’.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/speciale-linganno-della-sindone-perche-la-sindone-e-un-falso/


di Luigi Garlaschelli, da MicroMega 4/2010

La Sindone di Torino è un antico telo di lino che misura circa m 4,4x1,1, recante su una faccia la debole doppia immagine (frontale e dorsale) di un uomo crocifisso, che reca tutti i segni della Passione di Cristo. L’immagine, molto poco visibile a occhio nudo, può essere percepita solo a qualche distanza. Le fotografie della Sindone che siamo soliti ammirare sono riprodotte a contrasto accentuato.
Sul telo sono molto visibili bruciature e strinature, dovute a un incendio (Chambéry 1532), più altre minori, precedenti. Pochi anni dopo l’incendio, i fori delle bruciature furono chiusi con grossolane toppe, e sul retro della Sindone fu applicata una tela bianca di protezione (la tela d’Olanda).
Nel 2002 la Sindone fu restaurata. La tela d’Olanda e le toppe furono rimosse, gli orli delle bruciature accuratamente ripuliti e l’intero telo fotografato ad alta definizione. Fu confermato che l’immagine si trova solo su un lato del telo. Furono prelevati alcuni fili sciolti, e acquisiti dati spettroscopici che non sono stati ancora resi noti.
La Sindone è conservata in una cappella del duomo di Torino. Anziché arrotolata in una cassa come in precedenza, è ora distesa in una speciale teca ad alta tecnologia, in atmosfera inerte a umidità e temperatura costanti.
La Sindone di Torino è ormai nota in tutto il mondo, quasi come una nuova icona pop. Nessuna altra reliquia o reperto storico furono mai esaminati con tanta accuratezza e hanno mai suscitato simili controversie.
Per taluni credenti, l’idea che potrebbe trattarsi del vero telo funebre di Gesù, recante la sua immagine, è chiaramente irresistibile. Non è quindi sorprendente che, per un oggetto così emotivamente carico, la discussione circa l’autenticità sia ancora accesissima, malgrado tutte le evidenze storiche e scientifiche. In realtà, sulla Sindone è stata sino ad ora percepita dal pubblico di non specialisti solo quasi esclusivamente la voce dei fans dell’autenticità, che hanno prodotto un numero incredibilmente elevato di libri, scritti, documentari, siti internet e conferenze a sostegno della loro tesi, che spesso sconfinano nella pseudoscienza.
Eppure, i motivi per ritenere la Sindone un palese falso sono molti e razionali. Vediamone alcuni.

Falsa per la storia e falsa per la Chiesa

Non esistono tracce documentate della Sindone di Torino fino al 1355, quando comparve improvvisamente in Francia, in una piccola chiesa collegiata a Lirey, proprietà di un cavaliere, Goffredo di Charny, suscitando l’immediata opposizione di vescovi locali, che la ritennero un evidente falso.
Un memoriale del vescovo Pierre d’Arcis (1389) al papa Clemente VII riporta infatti, con parole durissime, tutte le polemiche furiose, immediatamente successive alla prima ostensione, e le azioni compiute dal suo predecessore, il vescovo Enrico di Poitiers, che ne bloccò le ostensioni e disse di avere anche trovato l’artista che l’aveva confezionata «dipingendola in modo astuto».
Clemente VII infine pose termine alla lunga controversia con 4 Bolle (6 gennaio 1390) con le quali ne permise bensì l’ostensione, ma senza solennità, e ordinò che ogni volta, alla presenza del pubblico, «si dica ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario».
Un falso la riconobbe infine il cardinal Ballestrero, arcivescovo di Torino, nel 1988, quando gli scienziati confermarono che il telo risaliva a un periodo tra il 1260 e il 1390, con un inequivocabile «penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati».
Per vari secoli, la Chiesa stessa considerò dunque la Sindone un falso, pur permettendone il crescente culto, soprattutto dopo che il telo, ormai proprietà dei Savoia, fu trasferito in Italia. Ad esempio, la Congregazione delle indulgenze e delle sacre reliquie, istituita nel Seicento, aveva il compito, per i casi più importanti, di vagliare l’opportunità o meno di concedere indulgenze o approvare il culto di una reliquia.
Nel 1670 dovette occuparsi della Sindone e ricorse ancora alla formula cautelativa «ut pie creditur» (il panno che piamente si crede essere il sudario di Gesù).
Attualmente la Chiesa – benché formalmente si dichiari neutrale circa l’autenticità – si baserà invece su un’altra formula, del tutto nuova, per permettere, anzi questa volta per promuovere, il culto della Sindone: non più «secondo la pia credenza» ma, riassumendone il senso, «secondo le conclusioni della scienza».

Falsa per l’archeologia

Le vere sindoni giudaiche del I secolo note agli archeologi sono completamente diverse dalla Sindone di Torino per tessuto, tessitura, torcitura del filo e disposizione attorno al corpo.
Una sindone famosa fu ritrovata nella località di Akeldamà. Questo telo rappresenta l’unica sindone funebre del Secondo Tempio mai scoperta a Gerusalemme. Il tessuto è stato datato nel laboratorio di Tucson, in Arizona, lo stesso che sottopose la Sindone al carbonio 14 nel 1988. Il risultato fu 50 a.C.-70 d.C.
In base alla posizione delle ossa e dei frammenti di tessuto, la ricostruzione della sepoltura mostra una tecnica diversa rispetto a quanto si vede sulla Sindone. Le braccia erano allungate lungo il tronco, il cadavere avvolto strettamente e collo, polsi e caviglie fermate con ulteriori bendaggi. Il tessuto era di lana (la Sindone è di lino), la trama composta da una semplice struttura 1:1 (la Sindone è a spina di pesce 3:1), la filatura è a S (la Sindone è a Z).
Frammenti di altre vere sindoni sono stati rinvenuti a ‘En Gedi, Qumran, Gerico e Khibert Qazone solo per citare alcune scoperte. Tutte datate con il carbonio 14 e tutte risultate essere più o meno contemporanee a Gesù. Questi tessuti – sia quelli in lino che quelli in lana – presentano semplici strutture 1:1 o 2:2. In alcuni casi, il cadavere era avvolto in stuoie di paglia (‘En Gedi). Due sono le costanti: pluralità di teli e corde per completare le sepolture e filatura dei tessuti a S, che erano prodotti in Israele, mentre quelli con torcitura a Z erano la norma in Grecia e in Italia.
Al contrario, l’unico tessuto noto di lino, a spina di pesce 3:1 e identico a quello della Sindone, è conservato nella sezione medievale del Victoria & Albert Museum di Londra. Il telo, catalogato come reperto 7027-1860 è stato datato al XIV secolo.

Falsa per la paleoantropologia

Pochi sanno che le tecniche esatte della crocifissione non sono note. L’unica prova di una crocifissione mai emersa da uno scavo in Terrasanta è quella del cosiddetto uomo di Giv’at HaMivtar, i cui resti con un chiodo ancora infisso nel calcagno furono trovati nel 1969 nella periferia di Gerusalemme. Gli studi paleoantropologici sull’argomento hanno chiarito con certezza che la posizione sulla croce di quell’uomo era inconciliabile con quella della figura sindonica: i piedi erano inchiodati lateralmente al palo della croce con due chiodi che trafiggevano i calcagni trasversalmente e le braccia erano probabilmente legate con corde.

Falsa per la geometria

L’immagine della Sindone manca di quelle deformazioni geometriche che caratterizzano l’impronta per contatto di un corpo su una tela. Se si pone una tela su un viso, per ricavarne l’impronta da orecchio a orecchio, si avrà una immagine molto dilatata (rispetto a quella di una foto segnaletica) caratteristica ad esempio della maschera mortuaria di Agamennone (figura 2). Fare una semplice verifica di ciò è alla portata di chiunque. Per un corpo la dilatazione è meno accentuata che nel caso del viso, ma è pur sempre molto pronunciata.
Abbiamo deciso di verificare sperimentalmente che tipo di impronta un vero corpo umano lascerebbe su di un telo stesovi sopra, anche nell’ipotesi che il telo fosse teso piatto sul corpo stesso, e non avvoltovi attorno e legato in vari punti come avveniva nella reale pratica funebre ebraica.
Nonostante vari lavori teorici, questo semplice esperimento pratico non era mai stato effettuato dai sindonologi.
Un volontario maschio, dotato di barba (m 1,91, 75 kg di peso) che portava una parrucca con capelli lunghi, è stato dipinto in modo uniforme con un liquido rosso viscoso, e un telo vi è stato teso attentamente sopra. Il risultato (figura 3a) mostra, come atteso, che solo le parti più prominenti del corpo lasciano una traccia. La figura 3b mostra il risultato se più porzioni del corpo vengono a contatto col telo.
Questo esperimento ci permette di notare due caratteristiche. In primo luogo, maggiore è la superficie del corpo che tocca il telo, maggiore è la deformazione. In secondo luogo, il corpo è molto meno deformato del volto – totalmente irriconoscibile – essendo più piatto. Infine, non si possono evitare pieghe del tessuto.
Naturalmente, in questo test il colore impregna totalmente il tessuto e passa al lato opposto. Inoltre l’immagine, essendo prodotta da un meccanismo per contatto, non ha le caratteristiche sfumature della Sindone.
Ma non è tutto. Assumendo che nella Sindone di Torino il corpo giacesse sul telo, che poi era stato ripiegato sopra, l’immagine dorsale dovrebbe essere influenzata dal peso del corpo stesso, e avere quindi maggiore intensità di quella frontale. Le due immagini invece hanno intensità identica e sono superficiali.

Falsa per l’anatomia

L’immagine della Sindone presenta varie anomalie anatomiche; per esempio l’avambraccio destro è più lungo del sinistro; i capelli sono rigidi e sollevati in modo del tutto impossibile per un corpo disteso; i tratti del volto sono asimmetrici: l’immagine dorsale è piatta, senza i rilievi del dorso e dei glutei. Vi è uno spazio bianco tra l’immagine dorsale e quella frontale, ovvero tra le due «teste» dove invece dovrebbe esserci l’impronta della sommità del capo; le dita sono lunghissime e le mani deformi.
I sostenitori dell’autenticità hanno dovuto perciò ricorrere perfino all’ipotesi ad hoc, alquanto spericolata, che Gesù fosse affetto dalla sindrome di Marfan (braccia lunghe, dita sottili, figura alta e magra eccetera).

Falsa per la medicina legale

La posizione stessa del corpo appare poco credibile. Per motivi di opportunità e pudore la figura ha il pube coperto dalle mani sovrapposte. Ma per una persona viva non è possibile mantenere le mani in quella postura a meno di compiere uno sforzo muscolare continuo. Le braccia rilassate di un cadavere ricadrebbero più giù e le mani si congiungerebbero solo sullo stomaco. La posizione della figura della Sindone si spiegherebbe solo se le mani fossero in qualche modo legate tra loro, ma di tale legame non vi è traccia.
Né ha senso ipotizzare che le braccia furono forzate in quella posizione e ivi mantenute a causa della rigidità cadaverica. Questa è un complesso insieme di fenomeni, ma è sicuro che se i muscoli contratti di un cadavere vengono forzati, essi si rilasciano. Dunque, sia che la rigidità si fosse già instaurata oppure no, le braccia non sarebbero potute essere composte in quella posizione senza essere legate ai polsi.
Il (presunto) sangue visibile sulla Sindone è troppo rosso per essere credibile. È invece ben noto che il sangue, fuoriuscito da un corpo vivo, diventa ben presto scurissimo per la degradazione dell’emoglobina.
Del sangue ancora fluido, comunque, avrebbe dovuto lasciare tracce informi, che si sarebbero ulteriormente deformate al distacco del lenzuolo; mentre del sangue coagulato non avrebbe lasciato sul telo tracce di quel tipo (come confermato da veri cadaveri insanguinati, avvolti in teli, esaminati in obitori).
Inoltre, è fisicamente impossibile che il sangue che fosse fuoriuscito dal cuoio capelluto colasse scorrendo sulla superficie esterna della capigliatura, anziché impiastricciarla tutta. I capelli, tra l’altro, in un corpo prono ricadrebbero ai lati del viso e non potrebbero lasciare il tipo di impronta visibile sulla Sindone.
Si dovrebbe infine credere che tutte queste tracce di «sangue» si siano conservate così perfettamente nonostante tutti i trattamenti manuali che il cadavere deve avere necessariamente subito durante la deposizione dalla croce e il trasporto al sepolcro.
Un sostenitore dell’autenticità Frederick Zugibe, per sfuggire alla cogenza di questi dati, ha avanzato l’ipotesi ad hoc che il corpo dell’uomo della Sindone fosse stato lavato prima di esservi avvolto, e che tracce di sangue così nette siano dovute a ulteriore fuoriuscita di sangue dalle ferite avvenuta dopo la morte. La tesi è ovviamente debole, perché la direzione delle colature, dalla testa o sulle braccia, implica invece che il corpo fosse verticale e con le braccia alzate, inchiodate alla croce.
Sul costato dell’immagine della Sindone è raffigurata una chiazza di sangue – dovuta al colpo di lancia – colata verso il basso quando il corpo, si immagina, era in posizione verticale. Sull’immagine della parte dorsale dell’uomo della Sindone vi sono poi altri rivoli di «sangue» coerenti solo con una posizione orizzontale del corpo, ormai deposto dalla croce. Non è chiaro come potesse il sangue fluire ancora, dal momento che un cadavere non sanguina.
Se si fosse trattato di sanguinamento «post-mortale» del sangue e siero accumulati nella cavità pleurica in seguito alla ferita, si dovrebbe comunque supporre che questo «versamento cadaverico» sia durato un tempo lunghissimo.
(Ma i sostenitori dell’autenticità sono tra loro in disaccordo e vedono cose diverse: si ipotizzava addirittura che la traccia fosse stata lasciata da un indumento o perizoma, intriso di sangue, che Cristo portava sulla croce.)
Sul corpo dell’immagine sindonica si vedono circa 120 segni spesso appaiati, che sarebbero stati lasciati dal flagrum (flagello) romano – strumento del quale peraltro non si hanno reperti archeologici.
La flagellazione era una pena dolorosa che poteva lacerare la pelle anche profondamente. Eppure, da nemmeno uno di quei segni di scudisciate sono visibili tracce o rivoletti di sangue. I segni dovrebbero poi essere intesi «in rilievo» (avendo lasciato tracce sulla Sindone al positivo), ciò che è discutibile, se essi rappresentano lacerazioni, anziché ecchimosi rigonfie.
(Naturalmente anche in questo caso gli «autenticisti» ad ogni costo arrivano a conclusioni diverse, anche per il numero dei colpi e la forma del flagello usato.)

Falsa per i primi esperti neutrali

La questione se vi sia o no presenza di vero sangue sembrerebbe poco rilevante ai fini dell’autenticità.
Un falsario avrebbe potuto benissimo usare del sangue, e poi più tardi il telo potrebbe essere stato ritoccato con del colore (ciò sarebbe potuto accadere anche su una Sindone autentica).
Comunque è più che dubbio che le tracce di «sangue» siano effettivamente di sangue.
Per soddisfare la crescente curiosità circa il misterioso telo, nel 1973 fu istituita dal cardinal Pellegrino una prima commissione composta da esperti museali neutrali, studiosi d’arte e medici legali esperti di analisi forensi. Da un lato gli storici dell’arte si dimostrarono scettici circa l’antichità del telo e furono piuttosto inclini a considerarlo un’opera di artista medievale.
Per quanto riguarda le analisi medico-legali, la ricerca del sangue fu eseguita su fili prelevati da varie macchie di «sangue», e fu svolta dal professor Giorgio Frache di Modena in un laboratorio di analisi forensi.
La quantità di materia sui fili nelle zone delle macchie è così grande che difficilmente tali analisi avrebbero potuto sbagliare. Sia il test della benzidina che altri più specifici furono però negativi. Le analisi per cromatografia su strato sottile eseguite da Frache furono pure negative. Esami microscopici condotti da Guido Filogamo e Alberto Zina non mostrarono tracce di globuli rossi o altri corpuscoli tipici del sangue. Tutti e tre questi tipi di indagine, insomma, furono convergenti nel NON rilevare tracce di sangue dove invece si sarebbero dovute trovare.
Sia Frache che Filogamo videro invece granuli di una materia colorante che non si dissolveva in glicerina, acqua ossigenata o acido acetico e sulla cui natura non si pronunciarono. Anche un altro membro della commissione, Silvio Curto, trovò tracce di un colorante rosso.

Falsa per i secondi esperti neutrali

Nel 1978 l’arcivescovo di Torino, cardinal Ballestrero, permise di analizzare la Sindone per circa 120 ore a un team di scienziati americani detto Sturp (Shroud of Turin Research Project). La neutralità dello Sturp fu sempre contestata, poiché molti lo ritenevano un gruppo di fanatici religiosi (il portavoce Jackson eseguì tutte le analisi con una grossa croce di legno appesa al collo).
In quel periodo, la Sindone fu fotografata alla luce visibile, nell’UV e nell’infrarosso, fu radiografata e furono prelevati alcuni fili. Dozzine di strisce di un apposito nastro adesivo furono premuti sulla tela e staccati, in modo da asportare varie fibre superficiali da molte zone.
Nel 1980 Walter McCrone, microscopista di fama mondiale, come consulente dello Sturp esaminò più di 8 mila fibre e particelle su 32 di quei nastri adesivi. Egli vi riscontrò subito indizi di falsità, quali la presenza di tracce di pigmenti come l’ocra rossa, che si trovava solo sui prelievi corrispondenti all’area della figura. Queste particelle richiesero forte ingrandimento per essere viste e identificate, anche con metodi chimici e spettroscopici. Vi erano inoltre delle fibre ingiallite, molto più numerose nelle zone di immagine. Ciò sembra suggerire che l’immagine stessa è costituita da due componenti: un pigmento a base di ossidi di ferro (ocra) sulle fibre e una colorazione giallastra uniforme su molte fibre.
McCrone ipotizzò quindi l’utilizzo, per la formazione dell’immagine, di una tecnica simile all’acquerello.
Le scoperte di McCrone suscitarono vivaci reazioni dei sindonologi dello Sturp, i quali attribuirono invece la presenza di ossido di ferro a contaminazioni artistiche o da ruggine o come ferro da sangue, insistendo sul fatto che la quantità di materiale di apporto è troppo piccola per essere all’origine dell’immagine.
Due lavori presentati da McCrone allo Sturp furono rifiutati; egli le pubblicò poi sulla rivista The Microscope e in varie altre sedi.
Più tardi, nel 1978-’80, McCrone trovò sui suoi nastri anche tracce inequivocabili di cinabro (solfuro di mercurio: pigmento rosso diffusissimo nel medioevo) e di alizarina (pigmento rosso-rosa vegetale), e la presenza di un legante che potrebbe essere collagene (gelatina) o bianco d’uovo. In pratica si tratterebbe di colori a tempera. Inoltre, non trovò presenza di sangue.
McCrone fu presto estromesso a tutti gli effetti dalle attività dello Sturp e dovette riconsegnare i nastri su cui aveva lavorato.
In contrasto, Heller e Adler, dello Sturp, dissero di avere accertato la presenza di sangue perché evidenziarono reazioni tipiche delle porfirine. Essi furono i soli a condurre analisi sul «sangue» e nessuna di esse è specifica per il sangue. Il test delle porfirine sarebbe positivo anche su tracce di origine vegetale. Anche essi ammettono di avere trovato una particella di cinabro.
Studi successivi eseguiti dallo scettico Joe Nickell ed esperti forensi hanno anche dimostrato che molti dei risultati ottenuti dai due chimici dello Sturp darebbero gli stessi risultati anche su colori a tempera.
Alcune delle conclusioni di McCrone, comunque, sono state recentemente confermate durante un convegno di sindonologi. Nel 2008, infatti, sono state eseguite analisi per spettrometria Raman sulla polvere che Riggi di Numana aveva raccolto nel 1978 con uno speciale aspiratore tra la Sindone e la tela d’Olanda. È stata confermata la presenza di una grande quantità di particelle di ossidi di ferro a vari gradi di idratazione (ocra), nonché di cinabro, alizarina e altri pigmenti pittorici.

Falsa per gli ultimi esperti neutrali

Lo Sturp, alla fine delle analisi del 1978 raccomandò che nel futuro, se fossero state disponibili attrezzature più sensibili, fosse eseguito il test più conclusivo, ovvero la datazione col metodo del carbonio 14. Dopo una serie di polemiche, nel 1988 piccoli campioni prelevati da un angolo del telo furono inviati ai tre laboratori che, a livello internazionale, avevano la migliore esperienza in questa tecnica (Tucson, Oxford e Zurigo). I risultati di queste analisi, condotte da scienziati neutrali e coordinate dal professor Tite del British Museum, risultarono coerenti con le informazioni storiche e artistiche note: il lino utilizzato per la Sindone era stato raccolto tra il 1260 e il 1390.

Come è stata prodotta la Sindone di Torino?

Gli scienziati dello Sturp, grazie alle analisi del 1978, raggiunsero un certo accordo su che cosa costituisce l’immagine. Ma il mistero restava fitto come prima, poiché essi non furono in grado di formulare teorie o ipotesi che potessero spiegare il meccanismo della formazione dell’immagine, o di riprodurla con metodi semplici: anche perché veniva in genere dato per scontato che l’immagine si fosse prodotta per reale contatto con un corpo umano e che non fosse stata eseguita manualmente.
Dobbiamo ora descrivere quali sono le proprietà dell’immagine e, sulla base di queste, tentare di capire se invece esiste una plausibile spiegazione di come la Sindone fu confezionata nel 1300.
La prima fotografia, eseguita nel 1899, lasciò stupefatti per il forte realismo dell’immagine sulla lastra negativa. La Sindone sembrerebbe dunque essere una specie di negativo fotografico, dalla quale, invertendo di nuovo i toni, si ottiene una sorta di fotografia (figura 4).
Questa sorprendente proprietà fu considerata come inspiegabile e stimolò ulteriori studi sulla Sindone, facilitati anche dall’ormai possibile riproduzione tramite fotografie.
Nel 1976 sulla Sindone fu scoperta una nuova caratteristica sorprendente. La luminosità di ogni punto dell’immagine negativa poteva essere correlata all’altezza di punti corrispondenti in una superficie generata da un computer. Questa elaborazione elettronica generò una superficie 3D che ricordava fortemente una forma umana. Lo stesso risultato non può essere ottenuto da una «normale» fotografia, nella quale i chiari e gli scuri sono codificati dall’illuminazione ottenuta da una fonte di luce esterna, e fallirono anche vari test sperimentali tesi a riprodurre lo stesso effetto.
Fu proprio questa scoperta che fece notizia soprattutto negli Stati Uniti, ove presto un gruppo di scienziati accomunati da un forte interesse verso la Sindone diede vita a un progetto di studio, lo Sturp, di cui abbiamo parlato.

Le caratteristiche dell’immagine sindonica

I risultati ufficiali dello Sturp non furono mai pubblicati in un unico rapporto, ma resi noti negli anni seguenti su varie riviste scientifiche. Le conclusioni principali furono le seguenti:
1) l’immagine della Sindone è molto debole e poco contrastata, e può essere percepita a occhio nudo ma solo da uno o due metri di distanza;
2) l’immagine è in effetti una sorta di pseudo-negativo. Si usa il termine pseudo, poiché anche i capelli e le macchie di «sangue» appaiono chiare nell’immagine in cui i toni sono invertiti;
3) l’immagine contiene delle informazioni 3D;
4) l’immagine sembra non mostrare le deformazioni che sarebbero da attendersi da una verosimile interazione tra un telo e una forma umana. L’immagine è stata definita una «proiezione ortogonale» di un corpo su una superficie. Questo è particolarmente evidente nel volto della Sindone;
5) l’intensità dell’immagine frontale è mediamente la stessa di quella dorsale;
6) le proprietà spettroscopiche dell’immagine nel visibile e nell’infrarosso sono molto simili a quelle di una leggera bruciatura o strinatura;
7) irraggiata all’UV, il lino della Sindone è molto debolmente fluorescente. L’immagine non è fluorescente e appare scura, poiché inibisce la fluorescenza del lino. Le bruciature del 1532 sono debolmente fluorescenti (marrone-rossiccio) a meno che il tessuto non sia del tutto carbonizzato;
8) l’immagine si trova nelle fibre più superficiali dei fili e non è visibile dal lato opposto del telo;
9) nelle zone dell’immagine non sono visibili (almeno fino a 600-1000 ingrandimenti) particelle o agglomerati di pigmenti o fibre cementate tra loro;
10) l’immagine sembra dovuta principalmente a una colorazione giallo-brunastra delle fibre di cellulosa del lino. Questo ingiallimento fu attribuito a un’ossidazione o degradazione della cellulosa, che potrebbe essere di origine chimica o termica;
11) l’immagine non ha toni continui di luminosità, ma è costituita da molte piccole zone colorate delle fibre più esterne. Le differenze nell’intensità dell’immagine sono dovute a un maggior numero di queste aree per unità di superficie, e non a un loro colore più scuro. Per questo motivo l’immagine è stata definita «a mezza tinta» (in inglese «half-tone» o «ad effetto retino», come certe foto di quotidiani in bianco e nero);
12) le macchie di «sangue», al contrario, hanno impregnato la tela e sono ben visibili sul lato opposto; contengono agglomerati di sostanza rossiccia e alcune delle fibre sottostanti sono incollate tra loro;
13) sono state trovate molte particelle di ocra rossa di dimensioni sub-micron, solo nella zona dell’immagine e – più numerose – nelle macchie di presunto sangue. Sono state trovate altre tracce di ferro, attribuite a ioni ferro chelati chimicamente o a ferro organico (da emoglobina);
14) l’immagine è presente anche in zone dove non sembra verosimile un contatto tra telo e corpo: per esempio attorno alle mani.

Tentativi di riproduzione artistici

La confessione dell’artista nel citato memorandum del 1389 del vescovo fa riferimento a un «modo astuto» (subtili modo) usato per creare l’immagine. Purtroppo, tale modo non è specificato (e nemmeno il nome dell’artista), ma sembra che chi ne scriveva volesse suggerire qualcosa di diverso da una comune, evidente forma di pittura.
Abbiamo visto come le analisi della commissione Pellegrino, quelle di McCrone e infine quelle di alcuni sindonologi rivelarono la presenza di pigmenti pittorici come ocra, cinabro e alizarina, solo nella zona dell’immagine e molto evidenti nelle cosiddette macchie di sangue.
McCrone aveva ipotizzato quindi l’utilizzo, per la formazione dell’immagine, di una tecnica simile all’acquerello. Benché un artista incaricato da McCrone fosse riuscito a produrre immagini abbastanza convincenti, l’ipotesi appare debole poiché è difficilissimo dipingere «in negativo», né sono noti storicamente esempi di tale tecnica.

Tentativi di riproduzione da un bassorilievo metallico riscaldato

Nel 1966 fu avanzata l’ipotesi che l’immagine potesse essere in realtà una leggera bruciatura, o una strinatura del tessuto, che infatti sarebbe giallo-bruna, non conterrebbe pigmenti o leganti pittorici, sarebbe stabile al riscaldamento e ai solventi e non sbiadirebbe nel tempo. L’immagine della Sindone, come dimostrato da misure spettrofotometriche di Gilbert e Gilbert, nel campo del visibile ha una notevole somiglianza con le caratteristiche di una strinatura. Secondo gli stessi autori, peraltro, una strinatura sarebbe visivamente più rossiccia (dato comunque non confermato strumentalmente).
Secondo Miller e Pelicori, anche all’UV le zone lievemente bruciate apparirebbero però lievemente rossicce. L’immagine non potrebbe dunque essere una strinatura. L’argomento è complesso e richiederebbe ulteriori studi, possibilmente confrontando le caratteristiche all’UV della Sindone con quelle di altri teli di lino coevi.
Un metodo interessante fu descritto nel 1982 da Vittorio Pesce Delfino, antropologo dell’Università di Bari, nel libro E l’uomo creò la Sindone.
Pesce Delfino partì con l’analizzare l’intensità dell’immagine del volto sindonico, assegnando ad ogni punto un certo rilievo proporzionale a tale intensità. Egli fece poi realizzare il corrispondente modello reale da uno scultore, ottenendo alla fine una specie di bassorilievo molto piatto di bronzo. Portato a circa 220 gradi, esso lascia su una tela di lino un’impronta – una strinatura – che è pseudonegativa, adirezionale, sfumata, contiene informazioni tridimensionali ed è indelebile, esattamente come la Sindone. Il negativo e le elaborazioni al computer per ricostruire la tridimensionalità danno risultati virtualmente indistinguibili da quelli ottenuti dalla vera Sindone.
Questa ipotesi di riproduzione presuppone che non esistano in realtà quelle lievi differenze nella fluorescenza tra le caratteristiche dell’impronta e quelle di una strinatura.
Il metodo di Pesce Delfino, che meriterebbe ulteriori sperimentazioni, ha qualche punto debole per quanto riguarda la verosimiglianza storica del procedimento. Il bassorilievo necessario sarebbe molto piatto e «irreale», dovrebbe essere a grandezza naturale e anche l’esecuzione della strinatura sembra piuttosto macchinosa. Pochi gradi in meno, o pochi secondi in meno di contatto tra telo e metallo, e non si ottiene alcuna impronta. Pochi gradi o pochi secondi in più, e la tela potrebbe bruciare. Il metodo, pare, non riesce a produrre l’effetto «retino», ovvero piccole zone scure in corrispondenza delle parti più rilevate dei fili, poiché il calore irraggia tutto il telo, che si ingiallisce in modo uniforme.
Inoltre la strinatura, nei punti dove è più intensa, produce facilmente un effetto visibile anche sul lato opposto.
Infine, il metodo produce un’immagine identica alla Sindone quale la vediamo noi ora, debole e poco contrastata. Le prime descrizioni della Sindone e le copie eseguite nei vari secoli sembrano indicare che l’immagine fosse più intensa e visibile, come sarebbe anche stato ovvio, dato che essa doveva essere esposta alla venerazione dei fedeli e quindi essere ben «leggibile».

L’ipotesi di Joe Nickell

Abbiamo visto come, secondo lo Sturp, l’ingiallimento delle fibre che sono la causa dell’immagine potrebbe avere una causa termica, oppure chimica. Senza negare che gli esperimenti con corpi riscaldati che strinano le fibre potrebbero avere qualche validità, è doveroso considerare anche la seconda possibilità.
Nel 1983 usciva per la Prometheus un libro di Joe Nickell, Inquest on the Shroud of Turin, nel quale si trova la descrizione di un altro metodo: Nickell usa un bassorilievo di gesso sul quale appoggia una tela inumidita (per farla aderire meglio). Quando la tela è asciutta, la sfrega con un tampone di stoffa sporcato con ocra in polvere, o altro colore secco. Ottiene così un’immagine negativa, sfumata, adirezionale, tridimensionale, superficiale, con effetto retino (in quanto solo i rilievi della tessitura si colorano).
L’immagine della Sindone, però, come sappiamo, non rivela presenza di pigmenti, ma si deve all’ingiallimento delle fibre di lino. Dunque il metodo del frottage richiede ulteriori ipotesi.
Del colore in polvere sarebbe stato applicato «a secco» al telo aderente al bassorilievo; e ciò avrebbe anche generato un’immagine ben visibile. Col tempo, il pigmento si sarebbe staccato, non essendo impastato con un legante.
Sostanze chimicamente non inerti, come tracce di acidi, presenti insieme al pigmento, sarebbero le vere responsabili della colorazione gialla, che in realtà è una degradazione chimica della cellulosa.
Nickell ha sviluppato questa ipotesi producendo ossidi di ferro secondo ricette medievali, per esempio per calcinazione del verde di vetriolo (solfato ferroso). Il liquido distillato è acido solforico, e il residuo della calcinazione è ossido di ferro con tracce di acido. Un pigmento simile, a causa dell’acidità che contiene, avrebbe provocato l’atteso tipo di degradazione.

Il nostro esperimento

Nickell si limitò a sperimentare su un bassorilievo del volto e mai su una figura intera, aggiungendo alla sua polvere d’ocra tracce di acidi o altre sostanze in grado di intaccare le fibre di lino.
Per mettere alla prova la sua promettente ipotesi, abbiamo innanzitutto verificato se era possibile ottenere immagini a grandezza naturale, sfumate, senza distorsioni, presenti anche in zone, come attorno alle mani, dove è improbabile che vi fosse contatto tra il corpo e il telo.
Abbiamo quindi fatto appositamente confezionare un telo di lino con le stesse caratteristiche, note dalla letteratura, di quello della Sindone di Torino. Una volta lavato e stirato, il nostro telo, tessuto a spina di pesce, aveva una densità di 25,7 mg per cm 2, con 36 fili per centimetro (ordito) e 23,5 fili per centimetro (trama).

Esperimenti di frottage con ocra in polvere, senza catalizzatori

Questi primi test sono stati effettuati con un tampone costituito da sacchettino di tela contenente dell’ocra in polvere. È risultato immediatamente ovvio che una simulazione del volto della Sindone non si poteva effettuare a partire da un vera testa (o modello) tridimensionale, a causa delle distorsioni geometriche di cui abbiamo parlato prima. Abbiamo quindi fabbricato un adatto bassorilievo di gesso – modificato per prove ed errori fino a ottenere risultati esteticamente accettabili.
La tela è stata semplicemente tenuta tesa sul bassorilievo, e poi sfregata leggermente, più volte, col tampone contenente ocra. Un tipico risultato di questo processo è mostrato nella figura 5 (positivo) e figura 6 (negativo). L’immagine è sfumata e ha automaticamente proprietà di uno pseudo-negativo fotografico.
Per l’immagine completa, si potrebbe ipotizzare che l’artista medievale abbia utilizzato un bassorilievo in grandezza naturale. Ma è possibile – come suggerito da Gian Marco Rinaldi – anche una soluzione più semplice: utilizzare il bassorilievo solo per il volto e un vero corpo per la figura. Il corpo è più piatto della testa ed è facile sfregare sul telo ottenendo l’impronta delle parti più in rilievo. Il risultato non è deformato come quello dato da un’impronta diretta (figure 3a e 3b) perché l’artista potrebbe avere poi rifinito l’immagine a mano libera applicando il colore dove mancava, alla ricerca di un’immagine esteticamente più leggibile.
Vi sono indizi che la testa e il corpo della Sindone di Torino siano stati ottenuti da «modelli» diversi. La testa è stata ritenuta anatomicamente troppo piccola; inoltre l’intensità media della sua immagine è circa il 10% maggiore di quella del resto del corpo – come se fosse stata apposta sulla tela in un momento diverso.
Infine, sotto il volto della Sindone è visibile in modo evidentissimo uno strano segno, simile a un collare, sul quale i sindonologi «autenticisti» hanno sempre taciuto. Esso non può derivare dal collo di un vero corpo; ma se fu usato un bassorilievo, è molto probabile che lo scultore che lo confezionò lo avesse fatto completo di un pezzo di collo, come ancora oggi si usa, per esempio sulle monete o le medaglie.
Nel nostro esperimento, abbiamo quindi teso la tela di lino sul corpo di un assistente, pinzandola agli angoli di un tavolo. Abbiamo strofinato il tampone di ocra sulle parti più sporgenti del corpo, poi abbiamo steso la tela su una superficie piatta e abbiamo completato l’immagine a mano libera.
È infatti impossibile applicare il pigmento in modo uniforme e nelle pieghe del telo quando questo è sopra un vero corpo umano. Oltre che, per esempio, sotto il mento, è difficile decalcare bene la mano semicoperta. Le dita sono quindi state riprodotte con un pennellino, sfumando la polvere d’ocra. Se anche l’artista medievale aveva incontrato questa difficoltà e l’aveva risolta nello stesso modo, si spiegherebbe l’aspetto innaturalmente allungato di questa mano. Notiamo anche che nella mano visibile, il pollice non appare, semplicemente perché è più basso del dorso e il tampone non lo raggiunge durante lo sfregamento (per spiegare l’anomalia gli «autenticisti» ricorrono a una ulteriore improbabile spiegazione ad hoc: il pollice sarebbe contratto per effetto del chiodo sul nervo che corre nel palmo).
Infine, abbiamo posto il bassorilievo nella posizione acconcia sotto la tela e abbiamo sfregato ancora col tampone ottenendo l’immagine del volto.
I segni della flagellazione e le macchie di «sangue» sono stati aggiunti sospendendo un po’ di ocra e cinabro in polvere in acqua e utilizzando un pennello. In tal modo essi appaiono netti, non sfumati come il resto del corpo: le stesse proprietà che posseggono nella Sindone di Torino e che hanno reso tanto perplessi i sindonologi.
Il risultato, ovviamente, non assomiglia ancora alla Sindone di Torino: è molto più visibile, contiene pigmento pittorico e ancora non vi sono le bruciature e altre tracce del tempo. È probabile però che questo fosse l’aspetto che aveva la Sindone appena confezionata (figura 7 e 8).

Esperimenti di frottage con pigmento e catalizzatori

Per verificare l’ipotesi di Nickell, il procedimento deve essere ripetuto – ovviamente su una seconda tela nuova – aggiungendo al pigmento qualche sostanza che catalizzi l’ingiallimento o la degradazione delle fibre quando la tela verrà scaldata in un apposito forno. Il pigmento verrà quindi lavato via.
Ciò equivale quindi a un invecchiamento artificiale, accelerato, che in alcune ore simula il trascorrere di vari secoli della Sindone di Torino. L’immagine ottenuta alla fine dovrà essere uno pseudonegativo, essere sfumata, essere dovuta all’ingiallimento superficiale delle fibre, non contenere pigmento residuo (se non in microtracce), mostrare proprietà 3D e non essere fluorescente.
Peraltro è logico che, per quanto accurata possa essere una riproduzione, nessun tipo di invecchiamento artificiale potrà mai essere completamente equivalente a quello naturale, che ha richiesto secoli. Probabilmente, è da attendersi solo un’imitazione delle caratteristiche salienti e non delle proprietà microscopiche dell’immagine.
Dunque, il vero significato del nostro esperimento è suggerire un meccanismo plausibile e semplice, che in un sol colpo renda conto della formazione dell’immagine e delle sue caratteristiche piuttosto che ottenerne una riproduzione perfetta ma impossibile.

Preparazione della tela. La tela fatta tessere da noi è stata innanzitutto fatta ingiallire con un primo passaggio di invecchiamento termico in stufa, scaldandola a 215-220 °C per tre ore, e infine lavandola. I valori spettroscopici di riflettanza del lino – sia nel visibile che nell’UV – dopo questo trattamento sono risultati simili a quelli noti dalla letteratura per la Sindone di Torino. In altre parole, abbiamo ottenuto una tela di lino che ha quasi esattamente lo stesso colore, tonalità e proprietà di fluorescenza all’UV della Sindone.
Preparazione del pigmento. Per questo passaggio è stato utilizzato, anziché ocra rossiccia, un pigmento chimicamente inerte di colore blu scuro (blu cobalto) per essere certi, dopo averlo lavato via alla fine, di distinguerlo dalle fibre di lino intaccate, di color giallo-bruno.
A questo pigmento sono state dunque aggiunte, in una lunga serie di test preliminari, quantità precise di varie sostanze quali sali o acidi organici solidi (carbonati o bicarbonato di sodio o di potassio, cloruro d’ammonio, acido tartarico, citrico, ossalico eccetera). Le miscele pigmento-catalizzatori sono state sfregate col tampone su campioni di tela di lino che poi venivano scaldata in stufa (a 145 °C per 4 ore) e lavati, per verificare l’effetto di queste sostanze estranee aggiunte al pigmento stesso.
I risultati, almeno nei limiti dell’invecchiamento accelerato utilizzato, si sono rivelati deludenti, poiché non si è ottenuto il previsto ingiallimento delle fibre. Si è compreso che era necessaria la presenza di acqua per permettere il contatto tra la sostanza aggiunta al pigmento e le fibre del lino. Sono state dunque utilizzate soluzioni acquose delle sostanze da testare, mescolate al blu cobalto (in rapporto circa 1:1 in peso). Ovviamente, così facendo, si ottiene alla fine non più una polvere, ma una sorta di poltiglia della consistenza di un colore a tempera diluito (o dello yogurt!). Si è determinato sperimentalmente che i migliori risultati si avevano utilizzando una soluzione di acido solforico diluito all’1,1-1,3 per cento.
È quasi impossibile, lavorando con una poltiglia, applicarla col tampone sulla tela e ottenere gli stessi toni sfumati e uniformi che si generano automaticamente quando si usa invece una polvere. A meno di trovare in futuro un catalizzatore che dia buoni risultati allo stato solido e non in soluzione, questo è sicuramente un punto debole del metodo.
Ciononostante, dopo qualche prova sul solo volto (sempre utilizzando il bassorilievo) e dopo avere acquisito un po’ di pratica manuale, si sono ottenuti risultati accettabili (figure 9 e 10), per quanto meno sfumati di quelli generati con polvere secca (figure 5 e 6).
Per la riproduzione in grandezza naturale, abbiamo ripetuto in pratica il procedimento già descritto. La tela (ingiallita in stufa) è stata stesa sul corpo del nostro aiutante. La poltiglia (a base di blu di cobalto e acido) è stata strofinata col tampone decalcando le parti più in rilievo del corpo. L’immagine è stata rifinita a mano libera rendendola più completa. È stato posto sotto la tela il bassorilievo del volto e sfregato col colore. Infine, con la stessa poltiglia acidulata, sono stati aggiunti col pennello segni della flagellazione. La tela è stata scaldata in un apposito forno (soprannominato «La macchina per fare le sindoni») a 145 °C per 4 ore, quindi lavata in una comune lavatrice e stirata.
Per completezza e soddisfazione visiva, sono state aggiunte le colature di «sangue» con la miscela già utilizzata di ocra rossa e cinabro in acqua. I fori delle bruciature sono stati riprodotti tracciando la loro posizione sul telo a partire da fotografie della Sindone di Torino e ritagliando via la tela al loro interno.
I bordi sono poi stati carbonizzati con una piccola torcia a butano per hobbistica.
Sono state prodotte sia la sola immagine frontale, su di un telo di circa 2x1,15 m, che la riproduzione totale della Sindone, con l’immagine frontale e dorsale della figura, su un telo di 4,40x1,15 m (figure 9 e 10 per la parte frontale).

Risultati. Alla fine del nostro esperimento, è stata ottenuta una riproduzione della Sindone di Torino visivamente accettabile. L’immagine mostra le attese proprietà di pseudo-negativo fotografico. Sono anche presenti gli effetti di sfumatura e l’immagine è superficiale, ovvero visibile su un solo lato del telo e non sul lato opposto (tranne le macchie di sangue, che come nella Sindone di Torino impregnano invece tutto il tessuto).
Fotografie al microscopio ottico a ca 50 ingrandimenti confermano anche che l’immagine è effettivamente composta da molte piccole zone colorate sulla parte superiore delle fibre più superficiali.
Le proprietà 3D codificate nell’immagine sono state evidenziate e valutate con un software grafico commerciale (Bryce 5.0) che permette di ottenere superfici virtuali 3D da immagini in toni di grigio (figura 11 e 12). Il risultato (figura 13, da confrontare con figura 4) può dipendere in misura notevole dalla qualità della fotografia di partenza (luminosità, contrasto eccetera) e dai settaggi del programma.
Le proprietà di fluorescenza alla lampada UV (a 366 nm) sono state valutate visivamente e fotograficamente. Il telo di lino nelle zone prive di immagine è molto debolmente fluorescente, mentre l’immagine e le tracce di «sangue» non lo sono per nulla.
Le bruciature sono non fluorescenti nelle parti completamente carbonizzate e leggermente marroncine dove la tela è solo strinata, esattamente come nella Sindone di Torino.

Conclusioni

Un esame delle caratteristiche della Sindone, della sua storia e delle analisi compiute su di essa permette già di affermare che si tratta di un falso medievale. Parte del persistente dibattito deriva dal fatto che, secondo i sostenitori dell’autenticità, le caratteristiche della Sindone non possono essere spiegate né tanto meno riprodotte.
Abbiamo ora sperimentalmente dimostrato che è possibile ottenere un’immagine sindonica utilizzando una semplice tecnica di frottage con un pigmento leggermente acido, utilizzando tecnologie banali e ovviamente disponibili nel 1300. L’immagine è stata artificialmente invecchiata e il pigmento rimosso.
Il risultato possiede la maggior parte delle caratteristiche di quelle della Sindone: pseudo-negatività, toni sfumati, superficialità, proprietà 3D, non fluorescenza eccetera.
Gli esperimenti riassunti in questo articolo possono sicuramente essere migliorati. In particolare sarebbe necessario trovare un catalizzatore solido da aggiungere al pigmento che permetterebbe di ottenere immagini più sfumate durante il frottage.
Inoltre, è chiaro che un invecchiamento accelerato e artificiale non sarà mai esattamente equivalente a quello naturale, durato secoli. Dunque, il nostro esperimento è riuscito nell’intento di suggerire un meccanismo plausibile e semplice, che in un sol colpo renda conto della formazione dell’immagine e delle sue caratteristiche.

RIFERIMENTI E NOTE

Un testo fondamentale, di impostazione critica:
J. NICKELL, Inquest on the Shroud of Turin, Prometheus Books, Buffalo N.Y. 1983-1987.
Breve libro totalmente scettico di introduzione generale alla Sindone:
L. GARLASCHELLI, Processo alla Sindone, Avverbi, Roma 1998.

Famosissimo e sempre citato, analogamente scettico:
V. PESCE DELFINO, E l’uomo creò la Sindone, Dedalo, Bari 1982.

Piuttosto tecnico, molto ben documentato, che è necessario leggere:
C. PAPINI, Sindone: una sfida alla scienza e alla fede, Claudiana, Torino 1998.

L’articolo più famoso è quello sui risultati della radiodatazione:
P.E. DAMON ET ALII, «Radiocarbon dating of the Shroud of Turin», Nature, 337, 1989, pp. 611-615.

Un testo di carattere generale su tutta la sindonologia, vista da un sostenitore dell’autenticità, molto ricco di riferimenti, che spesso sorvola su tutte le evidenze contrarie:
P.L. BAIMA BOLLONE, Sindone o no, Sei, Torino 1990.

«Rapporto Pellegrino» sulle prime analisi ufficiali deludenti:
G. FRACHE, E. MARI RIZZATTI, E. MARI, «Relazione conclusiva sulle indagini d’ordine ematologico praticate su materiale prelevato dalla Sindone», in «La S. Sindone. Ricerche e studi della Commissione di Esperti nominata dall’Arcivescovo di Torino, cardinale Michele Pellegrino, nel 1969», suppl. Rivista diocesana Torinese, gennaio 1976. pp. 49-54.

Un sommario tecnico delle prove eseguite dallo Sturp, su una rivista scientifica di reperibilità relativamente facile:
R.A.SCHWALBE, R.N. ROGERS, «Physics and Chemistry of the Shroud of Turin: A Summary of the 1978 Investigation», Analytica Chemica Acta, 135, 1982, p. 24.

Per un elenco di siti scettici e non: en.wikipedia.org/wiki/Shroud_of_Turin.

Uno dei pochi siti critici italiani, con molti articoli ben documentati:
sindone.weebly.com.

Questi esperimenti sono stati eseguiti grazie a donazioni da parte dell’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) e del Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), nonché numerosi contributi personali di singoli individui.
Il lavoro è dedicato alla memoria dell’amico Gualtiero Massa.
Si ringraziano tutti coloro che hanno prestato assistenza tecnica, e che sono troppo numerosi per essere qui citati singolarmente.

(20 aprile 2015)

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