IL MONDO E' COME UNO SPECCHIO

Osserva il modo in cui reagisci di fronte agli altri. Se scopri in qualcuno una qualità che ti attrae, cerca di svilupparla in te stesso. Se invece osservi una caratteristica che non ti piace, non criticarla, ma sforzati piuttosto di cancellarla dalla tua personalità. Ricorda che il mondo, come uno specchio, si limita a restituirti il riflesso di ciò che sei.

martedì 28 febbraio 2012

Il falso problema "Articolo 18" e il vero problema del fumo negli occhi

Approfitto della riflessione, proposta dall'amico e studioso Piero Basso (che ripropongo qui in fondo), per proporre alcune considerazioni, in parte anche frutto alla mia trentennale esperienza personale del mondo delle aziende. 
Un moto di contrarietà mi è spontaneamente nato all'affermazione di qualche giorno fa della presidente di confindustria Marcegaglia che, schierandosi per la revisione dell'articolo 18, parlava del presunto comportamento insopportabile dei sindacati che, tramite questo articolo, "difenderebbero i ladri e i fannulloni".
In realtà l'articolo 18 non consente assolutamente ciò. E' veramente incredibile che su un argomento come questo, che dovrebbe essere conosciuto profondamente soprattutto dalle associazioni industriali, possano essere fatte affermazioni così superficiali (è dunque evidente la mera volontà provocatorio-politica di tali atteggiamenti).

L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori si intitola "reintegrazione sul posto di lavoro" e disciplina le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo (perché effettuato senza comunicazione dei motivi, perché ingiustificato o perché discriminatorio) nelle unità produttive con più di 15 dipendenti.
Contrariamente a quanto stanno facendo passare i media, esso non dispone che il licenziamento sia valido solo se avviene per giusta causa o giustificato motivo. Tale principio è sancito dall'art. 1 della legge 604/1966 per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato. 
L'articolo 18 dispone invece che, in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, il lavoratore sia reintegrato nel posto di lavoro. 
Quali sono le giuste cause e i giustificati motivi previsti dalla legge? Vediamoli:

- rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa/insubordinazione
- rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l'insussistenza di una malattia
- lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro
- sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie)
- condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario)
- l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro minacce, percosse,
- reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento
malattia (superamento del periodo di comporto ).
- la chiusura dell'attività produttiva
- la soppressione del posto di lavoro
- introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani
- affidamento di servizi ad imprese esterne


Come si vede chiaramente, non solo si possono licenziare i ladri e i fannulloni, ma si possono licenziare tutti i lavoratori che si vogliono e in quantità. E, come ben vediamo nella nostra disastrata società, questo avviene alla grande! Ormai il posto di lavoro a tempo indeterminato, essendo così a rischio (aziende che chiudono, rami d'azienda ceduti, i cosiddetti spin-off, la ristrutturazione organizzativa, ambiti nei quali ricadono numerosissime casistiche), è diventato un bene prezioso, e i datori di lavoro lo sanno bene, al punto da ricattare facilmente i lavoratori anche inducendoli ad accettare condizioni peggiorative e/o vessatorie rispetto a quelle iniziali, come io stesso ho potuto verificare personalmente. 
Quindi l'articolo 18 è una mera legge di civiltà, una conquista di garanzia rispetto a pratiche un tempo fin troppo facili e approssimative, che vedevano la parte debole, il lavoratore, soccombere sempre.
Presupponendo il dipendente come parte debole, e questo è indubitabile, forse ci sono stati e ci sono (ma sempre meno) dei giudici del lavoro (non i sindacati), che hanno interpretato in modo troppo tutelante l'assenza delle prerogative di giusta causa, ma questo non significa che l'articolo 18 non sia giustificato. Così come è storia che, prima delle conquiste sindacali, siano esistiti datori di lavoro che approfittavano del loro potere e minacciavano e/o licenziavano chiunque non gradissero e anche per i più futili motivi: gravidanza, discriminazione ideologica, adesione ai sindacati o ai partiti, rifiuto a vessazioni o a pratiche scorrette, eccetera, le cause potevano essere molte, a volte anche solo le antipatie contavano. Per cui non mi si venga a raccontare che "un lavoratore che fa bene il suo lavoro non si licenzierebbe mai", questo può essere vero per tanti imprenditori onesti, ma per quanti potrebbe non esserlo? E che garanzie ci sono? E' sufficiente una tale professione di buone intenzioni? Non credo. La storia è piena di prove contrarie. E anche ora è così.

Si pensi -per fare due esempi che recenti- anche solo all'odissea dei lavoratori dell'Eutelia svenduti di azienda in azienda per poter essere alla fine meglio licenziati da un imprenditore senza scrupoli, o di aziende come la Golden Lady che non avevano problemi di fatturato ma che hanno licenziato solo per andare a produrre all'estero con minori costi.
Si afferma che una maggiore flessibilità del lavoro aiuterebbe maggiormente l'economia, dimenticando che dal 2003 (Legge Biagi del 14 febbraio 2003, secondo governo Berlusconi) sono state introdotte dinamiche di flessibilità e precariato: e come ci hanno aiutato se siamo a questo punto? Non sono servite a nulla, com'è evidente, se non a diffondere maggiore povertà e insicurezza, con tutti i risvolti che conosciamo.


Draghi ribadiva l'altro ieri che  "la riforma del mercato del lavoro è importante per salvare il sistema economico dei paesi europei e che riforme strutturali del mercato, compresi i servizi, e del lavoro, che in alcuni Paesi va reso più flessibile e più equo". Senza citare in modo esplicito l'Italia, Draghi poi si permetteva di puntare il dito contro quei sistemi dove l'alta flessibilità per i giovani, che possono avere contratti di tre-sei mesi rinnovati per anni, convive con una forte rigidità per la parte «protetta della popolazione, i cui salari seguono l'anzianità anziché la produttività». Sistemi «ingiusti», perché «scaricano tutto il peso della flessibilità sui giovani».
Ora io dico, va bene tutto, ma pensare di precarizzare tutti invece di migliorare la situazione dei giovani discriminati mi pare veramente una pretesa a dir poco provocatoria. Cos'è, una riedizione istituzionale del "mal comune mezzo gaudio"?
Oltretutto la temporaneità del lavoro giovanile non è dovuta certo ad una presa di posizione verso i giovani in sè, ma al fatto che la flessibilità in Italia si fa in entrata, e chi entra in azienda? I giovani, non certo i 50enni.
Mi pare giusto che chi lavora da 20 anni, chi ha più di 40 anni, e magari ha a carico famiglia e responsabilità sia un po' più garantito. Invece no, non va bene, deve diventare più facile anche la flessibilità in uscita. Peccato che poi la flessibilità debba essere a senso unico, nel senso che un lavoratore con più di 45 anni, che ora deve lavorare per altri 22 anni, non sia per nulla considerato dalle aziende che, come chiunque può verificare facilmente, cestinano direttamente tutti i curricula dei cinquantenni (altra esperienza diretta). Inoltre le aziende da un lato pretendono che il lavoratore sia disponibile ad accettare qualsiasi lavoro, dall'altro -quando fanno una ricerca di personale- pretendono lunghe esperienze (chi cambia spesso, è mal considerato) e pure nella stessa mansione.
Senza contare che da una parte si sbandiera il fatto che si vogliono aiutare i giovani e dall'altra si aumenta l'età pensionabile. Altra incongruenza non da poco, che la dice lunga sull'ipocrisia di certe affermazioni.
Con la situazione attuale, inoltre, l'allungamento dell'età pensionabile non ha effetto che sull'aumento della platea di persone che, perso il lavoro dopo i 45 anni, si ritrovano nell'area della disoccupazione e della povertà, oltretutto con ripercussioni sui familiari e quanti dipendono da questi redditi per sopravvivere.
Pare che chi ci governa e chi ci amministra sia anni luce lontano dalla realtà vera. E' possibile? Sì. Ma lo è per scelta e scientificamente. 
In tal modo evitano di chiarire il vero problema, che è stata e continua ad essere una precisa scelta del "vero potere": la carenza di lavoro sempre maggiore è dipesa dalla scelta neo-liberista della globalizzazione. Lasciando libero il mercato, senza nessuna legge da parte degli stati, è ovvio che le aziende, in una economia che premia il profitto a breve termine, tendono ad abbattere i costi il più possibile per avere margini alti e strappare maggiori vendite a prezzi più competitivi.
Pensare che siano i singoli manager o gli imprenditori a rendersi conto che la minor occupazione nel mercato interno alla fine possa abbattere in modo diretto la capacità di acquisto, molto più di quanto i prezzi più bassi (e maggiori margini) possano aumentarla, non è pensabile. Queste sono cose che devono pensare e a cui debbono porre rimedio i Governi degli Stati. Imprenditori e manager sono solo capaci di buttarsi addosso all'osso azzannandosi a vicenda... non di più.
L'unico modo per risolvere il problema del lavoro è attrarne di nuovo e non fare andare via quello che già c'è. 
E' questo quello che non si fa per nulla.
Per evitare l'emorragia di posti di lavoro innanzitutto occorrerebbe disincentivare chi va a produrre all'estero per il minor costo della manodopera: non solo non lo facciamo, ma facciamo pure dono a questi illuminati industriali della cassa integrazione a spese della collettività. Basterebbe ad esempio rendere meno conveniente l'importazione di beni dall'estero con appositi dazi doganali (si veda il post sul protezionismo in questo stesso blog). La Cina lo fa nei confronti dei prodotti occidentali, e da molto tempo.
Basterebbe anche ridurre la tassazione esagerata del costo del lavoro, per cui ad un dipendente arriva meno della metà del costo dell'azienda. Così ci aiuta lo Stato!
Altri metodi per risolvere l'attuale crisi e aumentare il lavoro sono descritti bene anche qui in questo blog.
Come si attrae il lavoro?
Nella risposta a tale domanda si cela il vero problema, se non ci sono investimenti in aziende in Italia è perchè siamo carenti di servizi e infrastrutture, la burocrazia è troppo farraginosa, gli investimenti non sono agevolati, anzi sono ostacolati, il lavoro costa troppo perchè è troppo tassato dallo Stato (che non riesce a incassare le tasse essendo fiscalmente inefficiente, vedi tema evasione), la corruzione e la malavita spadroneggiano, eccetera. Nel rapporto del forum economico mondiale (The global competitiveness report, 2010-2011)  la rigidità del mercato del lavoro viene solo al sesto posto, poco sopra la corruzione.
Poichè non ci sono capacità, volontà politica, convenienza, a risolvere i veri problemi, si cerca di farlo nel modo più semplice, togliendo a chi ha già poco per darlo gratuitamente alle banche e ai poteri forti che non solo ci hanno portato in questa situazione ma che in tal modo possono continuare ad arricchirsi fino a quando tutto non salterà. Forse loro, gli alfieri del vero potere, credono di essere al sicuro. Ma non è così.
Loro non vogliono un mondo dove il benessere è diffuso, perchè sarebbe un mondo molto più difficile da controllare e sfruttare. 
Il benessere diffuso crea cultura, informazione, conoscenza, consapevolezza di quante accade nella società. In tal modo sarebbe la società stessa a controllarsi, senza bisogno di maggiorenti e padroni del vapore dediti a dirigere il mondo a modo loro e non nel modo voluto spontaneamente dalle masse consapevoli e coscienti. 
Una società è molto più manovrabile e sfruttabile quanto più sono diffusi l'ignoranza e la povertà, ed è questo che tentano -oggi ancora di più- di fare. E' solo in questo contesto che individui astuti e senza scrupoli possono incrementare il loro egoistico ed enorme profitto, proprio come farebbe uno sciacallo a depredare le case distrutte da un terremoto.


Cosa bisognerebbe fare per risolvere l'attuale crisi economica? Quale è la soluzione facile, immediata, definitiva ed unica ai problemi del debito pubblico e della recessione?
Basterebbe ispirarsi ai casi di stati come l'Argentina o l'Islanda, e rifarsi alla famosa MMT (Modern Money Teorye alle sue indicazioni, già descritte anche in questo post qui nel BLOG. Come risolvere invece il tema della crescita in un mondo di risorse finite, lo scoglio su cui sono carenti le suddette teorie (che sono efficaci solo per il primo step di emersione dalla crisi), è descritto qui.



Una riflessione sull'art. 18 (di Piero Basso)

Si parla molto di riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che prevede, solo per le unità produttive di oltre 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo, non un semplice compenso monetario, ma il reintegro nel posto di lavoro. Una norma, quindi, che permette il licenziamento dei lavoratori quando questo sia giustificato, per esempio perché si riducono le commesse, ma non permette i licenziamenti arbitrari, per esempio di un sindacalista.
I sostenitori della riforma, o della pura e semplice abrogazione di questa norma, sostengono che rendendo più facili i licenziamenti le aziende sarebbero più propense ad assumere. L’affermazione non mi pare convincente, ed anzi vagamente ricattatoria, ma non ho le conoscenze e la competenza per parlarne.
Desidero però richiamare la vostra attenzione su una contraddizione eclatante nel discorso dei nemici dell'art. 18. Mentre Confindustria, Governo, mezzi di comunicazione, martellano incessantemente sulla necessità di una riforma del mercato del lavoro per consentire la ripresa economica del paese, quando parlano tra loro, lontano dagli occhi e dalle orecchie dell'opinione pubblica, dicono esattamente il contrario.
Devo a un giornalista coraggioso, Paolo Barnard, la segnalazione del rapporto del Forum economico mondiale sulla competitività dei diversi paesi. Il rapporto (The global competitiveness report, 2010-2011; potete scaricarlo da http://www3.weforum.org/docs/WEF_GlobalCompetitivenessReport_2010-11.pdf) contiene una quantità di informazioni interessanti: per esempio leggiamo che il reddito medio italiano è stato a lungo uguale al reddito medio dell'insieme dei paesi sviluppati, mentre si è molto ridotto rispetto a questo per tutto il ventennio berlusconiano.
Quello che ci interessa però notare è che l'Italia si situa solo al 48° posto tra le economie mondiali come paese dove fare investimenti, dopo tutti i paesi dell'Europa occidentale e molti paesi asiatici. E quali sono i fattori che, secondo gli imprenditori, rendono così poco appetibile investire nel nostro paese? Forse la rigidità nel mercato del lavoro? No certo. Al primo posto viene l'inefficienza della burocrazia governativa, al secondo la difficoltà nell'accesso al credito, poi la normativa fiscale, l'inadeguatezza delle infrastrutture...e solo al sesto posto viene la rigidità del mercato del lavoro, poco sopra la corruzione.
E negli altri paesi? Ho preso in considerazione cinque paesi dell'Europa occidentale, dalla Svizzera (al primo posto: un vero paradiso per gli investitori) alla Francia (15° posto), passando per la Svezia, la Germania e la Finlandia: in tutti questi la rigidità del mercato del lavoro è indicata al primo o al secondo posto tra gli ostacoli al business. Evidentemente dove lo Stato funziona, dove un paese funziona, dove lo Stato fornisce un ambiente di sicurezza sociale, di stabilità della forza lavoro e di benessere generali, anche gli investimenti sono garantiti e fruttano al massimo. Di questo dovrebbe occuparsi il nostro governo.

1 commento:

mausab ha detto...

Mistificare sembra essere la parola d’ordine del PD, il giorno dopo la conferenza stampa tenuta dal presidente del Consiglio Mario Monti e dalla ministra del Lavoro Elsa Fornero. “Il principio del reintegro c’è”, è la dichiarazione del segretario del PD, Bersani. “Torna il reintegro per i licenziamenti economici. Hanno vinto il buonsenso e la determinazione”, gli fa eco il capogruppo dello suo partito alla Camera, Dario Franceschini. Piccole parti di verità che nascondono grosse omissioni.

In realtà il disegno di legge del governo contiene, ai fini del reintegro, una procedura farraginosa, incerta e limitata a casi molto limitati. In pratica si sta parlando di modifiche gattopardesche ed intanto il Ddl è ora in mano al presidente della Repubblica. Perché, visto che non è quello il percorso previsto per l’iter normativo? Viene da pensare che il vero regista di tutta questa faccenda sia proprio Giorgio Napolitano, che nelle scorse settimane non ha mai perso occasione per richiamare sindacati, industriali e partiti a non intralciare il corso della riforma del mercato del lavoro.

In buona sostanza, a parte l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, che solo nel caso non andasse a buon fine consentirebbe il ricorso al giudice, l’impianto normativo ipotizzato per i licenziamenti individuali rimane lo stesso già abbozzato nelle scorse settimane dal governo. Le piccole modifiche riguardano solo i licenziamenti giustificati dall’azienda con motivazioni economiche. Secondo il Ddl, il giudice ha facoltà (non l’obbligo) di ordinare al datore di lavoro il reintegro del lavoratore licenziato, solo “nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. Nel caso il Dddl venisse approvato in Parlamento in questa formulazione, l’insussistenza del motivo oggettivo (economico), in sede processuale, non basterà più a far rientrare al lavoro chi è stato illegittimamente licenziato. Occorrerà che la non sussistenza del motivo del licenziamento sia manifesto, ossia non ci siano dubbi che il motivo sia infondato. In pratica, nel caso in cui in sede processuale il datore di lavoro non dissiperà ogni dubbio circa l’insussistenza delle motivazioni addotte il licenziamento, il lavoratore non potrà essere reintegrato. L’illegittimo licenziamento diverrebbe legittimo per insufficienza di prove.

In sostanza sull’articolo 18 cambia davvero pochissimo e quelle modifiche, per quanto si rallegrino dalle parti del PD, non servirà affatto a tutelare i lavoratori ingiustamente licenziati. Ne da conferma “Il Sole 24 Ore” di oggi (5 aprile) , che in una schematica quanto efficace “valutazione dell’impatto delle misure”, giudica le proposte di modifica all’articolo 18 come peggiorative per la tutela dei lavoratori e migliorative per le aziende. L’organo ufficiale della voce dei padroni non ha bisogno di nascondersi dietro un dito, come tocca fare al PD, né dietro un imbarazzante silenzio, come sta facendo finora la Cgil.



Tratto da: Legittimo licenziamento illegittimo. La nuova formulazione dell’articolo 18 | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/04/06/legittimo-licenziamento-illegittimo-la-nuova-formulazione-dell%e2%80%99articolo-18/#ixzz1rFT80cO6
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!