IL MONDO E' COME UNO SPECCHIO

Osserva il modo in cui reagisci di fronte agli altri. Se scopri in qualcuno una qualità che ti attrae, cerca di svilupparla in te stesso. Se invece osservi una caratteristica che non ti piace, non criticarla, ma sforzati piuttosto di cancellarla dalla tua personalità. Ricorda che il mondo, come uno specchio, si limita a restituirti il riflesso di ciò che sei.

martedì 10 maggio 2016

Riforma del Senato: dal bicameralismo perfetto al bicameralismo… confuso

Analisi delle modifiche costituzionali inerenti al prossimo referendum (non abrogativo, per cui la domanda è se si approva, non se si abroga).

Le ragioni della modifica del Senato (non eliminazione, attenti!) sono essenzialmente 2, una economica e l’altra relativa al superamento del bicameralismo che sarebbe alla radice della lentezza legislativa italiana.

Per quanto riguarda il primo punto, il costo, in termini reali, poco più di un terzo dei 505 milioni di euro – pari a circa 160 milioni di euro –costituirebbe l’effettivo risparmio conseguibile con l’eliminazione del Senato elettivo. Approfondiamo questo tema tecnico in fondo alla nota.

E per quanto riguarda il secondo punto, e questo è l’aspetto più eclatante e più noto di tutto il pacchetto, il superamento del cosiddetto «bicameralismo perfetto» che caratterizzava fino a oggi il nostro Paese, e con cui si intende un sistema in cui due camere sono investite delle stesse funzioni politiche, dovrebbe evitare che ogni legge debba essere discussa e approvata all’interno di entrambe le camere. Così avviene infatti in Italia, secondo il principio costituzionale che infatti recita che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70). Una corrente di pensiero assai diffusa, fatta propria con entusiasmo dal presidente del consiglio, vuole che tale sistema sia causa dei fenomeni di blocco del sistema politico, e dunque, nel rozzo linguaggio renziano, debba essere «rottamato». Tesi non del tutto infondata, questa, e che Renzi non è certo il primo a sostenere: anche nella storia della sinistra italiana non è mancata questa posizione, sostenuta in chiave di rinnovamento di una democrazia di massa (è stata questa la tesi di Ingrao, per esempio, negli anni Settanta-Ottanta).
È però anche vero che – come ha osservato di recente Raniero La Valle – la scelta bicamerale ha un forte radicamento, non casuale, nello spirito della Resistenza che animava i costituenti, fautori di una «democrazia abbondante» (e per i quali dunque – ha scritto La Valle - «se c’era stato un Senato del Regno, ora doveva esserci un Senato della Repubblica, e se quello era una Camera di nominati a vita, questo doveva essere una Camera di eletti»).
Nella scienza politica, del resto, non si dà affatto per scontato che il bicameralismo perfetto sia necessariamente fonte di farraginosità: a fronte di un inevitabile allungamento del processo legislativo, infatti, esso consente spesso il miglioramento tecnico della legislazione (naturalmente, al netto del degrado generale del personale politico, ma questa – come si dice – è un’altra storia), nonché un maggiore controllo sull’esecutivo [si veda per esempio la voce Bicameralismo della Dizionario di politica di Bobbio-Matteucci-Pasquino (Utet 1976)].
Ma torniamo al ddl Boschi e alla sua “riforma”: ebbene, la Camera dei deputati resterà l’unica a votare la fiducia al governo e a svolgere buona parte dell’attività legislativa. Il Senato però non scomparirà (non cambierà neppure nome), ma diventerà una sorta di camera degli enti locali (secondo i detrattori “un dopolavoro per consiglieri regionali”), eletta ogni sette anni e composta da cento membri, di cui 21 sindaci (uno per regione) e 74 consiglieri regionali, oltre a cinque senatori di nomina presidenziale (non più a vita, ma della stessa durata del mandato presidenziale).
Da sottolineare che sia nel caso dei consiglieri regionali sia nel caso dei sindaci, resta oscura la modalità di scelta: elezione indiretta (da parte dei Consigli) o elezione da parte del corpo elettorale? Ciò sarà deciso da una successiva legge ordinaria. (Mentre è già sicuro – lo ricordiamo a costo di apparire «populisti» – che i nuovi senatori saranno debitamente coperti da immunità parlamentare…).
Il procedimento legislativo viene, comunque, profondamente cambiato: la partecipazione paritaria delle due camere non viene del tutto eliminata, ma sarà limitata ad alcune tipologie di «leggi bicamerali» (per esempio in materia costituzionale e di ordinamento degli enti locali). Per tutte le altre leggi il Senato potrà solo proporre modifiche cui la Camera peraltro potrà decidere di non dare corso (con voto a maggioranza assoluta nel solo caso di leggi riguardanti il rapporto Stato-Regioni).
Come si vede già da queste brevi note, non sembra proprio il regno della semplificazione! Verrebbe piuttosto da dire che stiamo passando dal bicameralismo perfetto a un “bicameralismo confuso”!

Prerogative del governo.

La riforma mostra una lodevole preoccupazione per l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza, fenomeno sempre più diffuso negli ultimi decenni. Non deve però sfuggire, nella trama confusa della riforma, l’introduzione di una norma riguardante la votazione prioritaria dei disegni di legge dichiarati fondamentali per la realizzazione del programma di governo: il Governo può su tali leggi chiedere al Parlamento di pronunciarsi entro 70 giorni, causando, secondo alcuni osservatori come Gaetano Azzariti, una «compressione dell’autonomia della Camera». C’è da chiedersi, insomma, se non si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che si dice di voler far uscire dalla porta.

Superamento delle province e ritorno al centralismo.

Nel quadro di riscrittura del Titolo V che si colloca la famosa abolizione delle Province, presentate da una lunga campagna demagogica come degli inutili carrozzoni mangia-soldi (su questa retorica delle Province come sentina di tutte le nequizie bisognerà, prima o poi, che qualche storico scriva qualcosa…).
In teoria, le funzioni attualmente svolte da questi antichi organi amministrativi (sono un lascito napoleonico, poi mantenuto dagli stati della Restaurazione), per esempio la manutenzione delle strade locali, dovrebbero essere riassorbite dai due livelli contigui, quello inferiore dei Comuni e quello superiore delle Regioni; in pratica, però (e mai come in questo caso tra teoria e pratica la differenza è importante), non si capisce bene come saranno redistribuite, chi farà cosa e come, quali conflitti ci saranno (e sono già cominciati), né dove andranno a finire i dipendenti di questi enti, mentre l’attesa messianica è rivolta verso le mitizzate «città metropolitane». In ogni caso, comunque, i cittadini perdono un’istanza democratica e molto vicina da sempre ai territori e “guadagnano” istituzioni sostanzialmente non-elettive come le città metropolitane. Non sarebbe bastato – viene da chiedersi – l’accorpamento delle province esistenti, cominciando con l’abolizione delle decine di nuove province istituite a partire da fine anni Novanta (un caso per tutti: il raddoppio in Sardegna!)? O una seria e drastica opera di riordino di enti e apparati, come di riduzione degli emolumenti?

Conclusioni

Anche da queste poche osservazioni (abbiamo qui tralasciato diverse modifiche minori, relative, tra l’altro, all'elezione del Presidente, regole per i referendum e leggi d’iniziativa popolare), emergono chiari i tratti di una riforma che, oltre a produrre non poche complicazioni sul terreno politico-istituzionale (tutto all’opposto della sempre invocata semplificazione), rischia di determinare, combinata con la nuova legge elettorale dal forte premio di maggioranza, quella torsione leaderistica e quella occupazione del potere da parte di un solo partito, al limite di una sola persona, che da più parti viene paventata.
È proprio su questi presupposti che il fronte del NO alle riforme renziane ha mosso nei mesi scorsi i primi passi, presentandosi pubblicamente in due iniziative tenutesi nel gennaio scorso a Roma, sotto gli auspici di grandi personalità del mondo del diritto, come Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Paolo Maddalena, e con il sostegno politico di ciò che resta della sinistra dentro e fuori il Parlamento (SEL, o meglio la nuova “Sinistra Italiana”, PRC, PCdI, gruppi e movimenti, come Libertà e Giustizia, ANPI, ecc.). Uno schieramento di forze vasto, a difesa della democrazia costituzionale, o meglio sarebbe dire contro la destabilizzazione costituzionale che questo governo, più attento all’efficacia comunicativa che al buon funzionamento della democrazia, rischia di produrre.
È una battaglia importante, a cui crediamo si debba dare il massimo risalto, nella consapevolezza che difendere il modello di organizzazione politica che i costituenti ci hanno consegnato nel dopoguerra è il modo migliore per garantirci un futuro democratico e pluralista.  (Toni Muzzioli)


Il risparmio effettivo sul Senato
Il costo complessivo annuale del Senato è pari a 505 milioni di euro. Cifra questa, risultato peraltro di una sorta di mini-spending review, che nell’arco dell’ultimo decennio ha fatto calare la spesa di quasi 90 milioni di euro.
Va poi considerato che, in termini reali, poco più di un terzo dei 505 milioni di euro – pari a circa 160 milioni di euro –costituirebbe l’effettivo risparmio conseguibile con l’eliminazione del Senato elettivo.
Le voci di costo che sarebbero certamente cancellate per sempre sono ascrivibili alle indennità di funzione dei 315 senatori (80 milioni di euro), alle risorse destinate ai gruppi (21,3 milioni di euro). Nonché ad una serie di esborsi che, aggregati, ammontano a circa 55-60 euro milioni di euro. I cui principali capitoli di spesa, come emerge dalla lettura del bilancio, sono rappresentati da: servizi informatici (8,4 milioni di euro), logistica (5,4 milioni di euro), servizi di spedizione e trasporto (7,5 milioni di euro), comunicazione istituzionale (6,5 milioni di euro), cerimoniale (circa 2 milioni di euro) e produzione di studi e documenti (2,9 milioni di euro).
Un ulteriore elemento di costo non completamente eliminabile è quello relativo alla manutenzione delle sedi. La manutenzione ordinaria, che costa ogni anno ben 6,3 milioni di euro, potrebbe certo subire un lieve ridimensionamento legato al minore utilizzo degli immobili. Rimarrebbero comunque gli oneri derivanti dalla manutenzione straordinaria, nonché quelli per il riscaldamento e l’illuminazione, per un costo prudenziale pari a circa 10 milioni di euro.
L’abolizione del Senato permetterebbe invece di risparmiare i costi per l’organizzazione dei lavori delle varie commissioni – di inchiesta, di vigilanza, speciali e consultive – che pesano sul bilancio dell’ente per circa 1,1 milioni di euro.
Due terzi della spesa totale rimarrebbero però insopprimibili. Si tratta, ad esempio, degli 82 milioni di euro relativi alle pensioni erogate agli ex senatori. Una voce di costo, questa, peraltro destinata ad aumentare automaticamente di anno in anno, in quanto non assoggettabile ad alcuna forma di flessibilità. Si pensi infatti che dal 2012 al 2013 la spesa pensionistica ha subito un incremento di 4,8 milioni di euro, passando da 77,2 milioni ad appunto 82 milioni. Per i dipendenti la questione è ancora più rilevante: nel 2012 la voce era pari a 106,85 milioni e nel 2013 è cresciuta fino a 115,2 milioni.
A meno che non si pensi che magicamente i dipendenti del Senato scompaiano, c’è inoltre da considerare che i 130 milioni di spesa dei relativi emolumenti rimarranno a carico del bilancio dello Stato. Rispetto alle maestranze, va poi detto che il blocco del turnover ha ridotto, negli ultimi cinque anni, del 32 per cento il numero dei dipendenti, passato così da 1.243 agli attuali 840. Che nel 2015 raggiungeranno la soglia di 800 unità, con una riduzione complessiva della spesa che salirà così al 35 per cento, con un conseguente risparmio quantificabile in circa 6 milioni di euro all’anno.
Con la riforma del Senato voluta da Renzi verrebbero invece eliminati i 14 milioni di euro di costo per il personale delle segreterie particolari e per le consulenze.
A conti fatti, però, come detto, le reali economie ottenibili dalla riforma del Senato sarebbero ben inferiori a quelle ipotizzati dal premier. Che forse, prima o poi, ci spiegherà meglio da quali conti è partito per calcolare il famoso miliardo di risparmi.

(http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/02/renzi-via-i-senatori-un-miliardo-di-tagli-alla-politica-ma-non-e-vero/970222/)

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