E così non può che essere anche ora per ogni singolo individuo. Da qui il terrore della chiesa di perdere la sua "unicità di mediazione tra l'uomo e Dio". Se non c'è una verità assoluta, ma solo un'interpretazione, per molti versi astrusa e poco credibile, e ognuno deve cercarla autonomamente, allora che cosa resta da fare alle gerarchie?
Scrive il teologo Vito Mancuso su Repubblica: "Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c' è alcuna "res" al cui cospetto poter presentare solo un' obbediente "adaequatio" del proprio intelletto, non c' è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l' esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio.
Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che "sicuramente non esprime un fatto storico", ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l' etichetta "valori non-negoziabili" apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita). Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà."
Approfondendo gli innumerevoli studi sul cristianesimo, sulle sue origini, sui testi evangelici, canonici, apocrifi e gnostici, si evince con chiarezza cristallina che la figura del Cristo è totalmente diversa da quanto creduto dal mondo che non approfondisce, che Cristo era un ebreo e che non volle mai uscire da questo alveo, che il Cristo fu una figura storica secondaria rispetto al contemporaneo profeta Giovanni, che il cristianesimo delle origini subito dopo la morte del Cristo vide dispute profonde tra i suoi eredi (Pietro e Giacomo, suo fratello e poi Paolo di Tarso), e che il cristianesimo è una religione pagana per gli ebrei di allora e che fu creata da Paolo per pagani (come lui, che era romano).
La chiesa cattolica come noi la conosciamo oggi ci ha messo 1500 anni a creare un suo "canone" attraverzo innumerevoli dispute teologiche, concili, ed encicliche varie. Il paradosso è che non solo il Cristo, ma tutti i primi cristiani, sarebbero stati considerati eretici dal medioevo in poi. Fino ai nostri giorni.
Il tema è vastissimo. Quello che vorrei fare qui è proporvi a seguire alcuni interessanti ragionamenti apparsi recentemente. Semplici spunti di riflessione.
Da Gesù al cristianesimo. Intervista a Mauro Pesce
Estratto
Il clero si accorse che i libri di esegesi prodotti dagli specialisti erano troppo difficili per essere utilizzati dal popolo fedele, il quale, per di più era disabituato ad un contatto diretto con i testi biblici e con un atteggiamento intellettuale libero e critico.
La risposta a questo problema – che è un problema assolutamente reale – è stata quella di evitare le difficoltà. Si è cercato di rimuovere il problema, fornendo un’interpretazione semplificata della Bibbia che non mettesse in contatto diretto i fedeli con i nodi della ricerca storica, con il fatto ad esempio che i quattro vangeli sono diversi l’uno rispetto all’altro, che la teologia di Paolo è diversa da quella di Giovanni, che ci sono state tante forme di cristianesimo primitivo, ecc. Che le forme teologiche, dogmatiche e istituzionali delle Chiese successive sono diverse da quelle di Gesù e dei suoi primi seguaci. Tutto questo, senza una formazione teologica almeno elementare, non poteva essere comprensibile dal popolo fedele, si pensava. Perciò si scelse di abbandonare sempre di più l’esegesi storica, che creava troppi problemi, a favore di un’interpretazione spiritualizzante e armonizzante dei testi biblici. All’esegesi storica venne sostituita poco alla volta un’esegesi puramente letteraria, narrativa. Si preferirono letture di ciascun vangelo che trascurassero le differenze con gli altri vangeli evitando sistematicamente di porre in luce tutte le tante e importanti differenze tra Gesù e gli scritti del Nuovo Testamento. Mentre decenni di ricerca dagli anni Settanta in poi riscoprivano l’importanza di molti testi cristiani non contenuti nel Nuovo testamento, il magistero preferì sostenere presso i fedeli che tutti i testi apocrifi erano molto più tardi del Nuovo testamento e senza vero e proprio significato religioso. Si cercava di distogliere i fedeli da questo supposto pericolo.
Articolo intero
Come è nato il cristianesimo? In che modo dalla predicazione di Gesù ha preso forma una comunità di fedeli capace di annunciare la sua parola in ogni angolo del pianeta e di dare vita alla struttura che ancora oggi, a secoli di distanza, riconosciamo nella Chiesa cattolica? A questi ed altri interrogativi, ricchi di fascino tanto per i credenti quanto per i non credenti, risponde Mauro Pesce nel suo ultimo libro: Da Gesù al cristianesimo(Morcelliana, p. 272, euro 20). Biblista, docente all’Università di Bologna e fra i più affermati studiosi a livello internazionale delle origini del cristianesimo, Pesce ha dedicato a questi temi diversi volumi, tra i quali il best seller Inchiesta su Gesù (scritto con Corrado Augias, Mondadori). MicroMega lo ha intervistato.
Professor Pesce, partirei dal titolo del suo nuovo libro: Da Gesù al cristianesimo. A qualcuno potrebbe suonare strano o perfino provocatorio: se Gesù, cioè Cristo, è il fondatore del cristianesimo – il leader della prima comunità di fedeli e seguaci che attorno al suo annuncio si sono raccolti riconoscendolo come figlio di Dio – che bisogno c’è di segnalare una discontinuità, di alludere ad una linea di divisione fra Gesù e il cristianesimo?Questa domanda è quella fondamentale e la ringrazio di averla posta. Come scrivo nel libro, Gesù era un ebreo che non aveva intenzione di fondare una nuova religione. Se le cose stanno davvero così, bisogna allora chiedersi necessariamente come sia stato possibile che sia nato il cristianesimo, una religione che si presenta separata dal giudaismo.
Questa domanda cruciale domina la nostra storia religiosa e gli studi recenti sulle origini del cristianesimo. L’elaborazione di una narrazione storica convincente, che vada da Gesù fino al momento in cui il cristianesimo sussiste come religione autonoma, richiede però che si ricostruiscano da un lato la fisionomia storica di Gesù e dall’altro le varie forme religiose create dai diversi gruppi di seguaci di Gesù dopo la sua morte.
Per questi motivi, nella prima parte del libro ho ritenuto necessario dedicare due capitoli all’ebraicità di Gesù e alla sua differenza rispetto al cristianesimo primitivo (in particolare per quanto riguarda la remissione dei peccati e la funzione dei sacrifici del tempio di Gerusalemme).
Nel Vangelo di Matteo una delle invocazioni della preghiera del Padre nostroafferma «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori» (Mt. 6,12).
Per Gesù, dunque, la condizione imprescindibile per ottenere la remissione o perdono dei peccati da parte di Dio è la remissione o perdono preventivo ai fratelli. Qui la concessione del perdono da parte di Dio non sembra richiedere unaespiazione né da parte del peccatore, né da parte di un salvatore che si sostituisce a lui. La morte di Gesù non ha nessuna funzione per la remissione dei peccati.
Nel libro mostro come questa concezione che Gesù ha del perdono dei peccati sia legata alle concezioni ebraiche della fine dei tempi che sono caratteristiche di certi ambienti giudaici di allora. Il cristianesimo primitivo dopo la morte di Gesù, sosterrà invece che il perdono dei peccati da parte di Dio dipende dalla morte salvifica di Gesù, come leggiamo ad esempio in Paolo nel capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi: “Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture”. Qui la differenza tra Gesù e la teologia successiva dei suoi seguaci è chiara.
In un capitolo successivo, mostro che Gesù non voleva “abolire” i sacrifici del tempio di Gerusalemme sostituendoli con un’altra religione. Gesù non era contrario ai sacrifici che si svolgevano nel tempio ebraico e anzi invitava a compierli con un atteggiamento autenticamente religioso, secondo una spiritualità che ritroviamo anche nell’esperienza religiosa ebraica prima di lui.
Alla fine del libro mostro come i discepoli di Gesù, dopo la sua morte si allontanarono da diversi aspetti fondamentali del suo insegnamento e della sua pratica di vita.
Quali sono le ragioni di questo allontanamento da parte dei suoi discepoli?Innanzitutto Gesù non aveva previsto tutta una serie di problemi che i suoi seguaci dovettero affrontare senza avere a disposizione delle sue indicazioni. Dovettero inventare delle risposte e si differenziarono anche notevolmente fra loro nel darle.
Gesù non aveva fornito alcuna indicazione sul come si dovesse predicare ai non ebrei e come dovessero convertirsi al messaggio di Gesù. A questo problema vennero date risposte molto differenti.
Alcuni proposero che i gentili si convertissero al giudaismo non soltanto nel senso che dovevano adorare solo il Dio unico e vero, ma anche osservassero integralmente la legge biblica (circoncisione compresa).
Una seconda corrente, rappresentata da Paolo, sostenne invece una sorta di giudaizzazione parziale dei non Giudei: dovevano convertirsi all’adorazione dell’unico Dio, abbandonando così i culti ad altre divinità, ma non avevano bisogno di diventare Giudei. In attesa del regno, Giudei e non Giudei dovevano convivere e coesistere nei gruppi di seguaci di Gesù senza rinunciare alla propria differenza.
Quello che noi chiamiamo cristianesimo non è espressione della prima risposta (che proponeva che i gentili si giudaizzassero), la quale viene oggi chiamata spesso “giudeo-cristianesimo”. Non è espressione neppure della seconda che dovrebbe essere chiamata semplicemente paolinismo. Il cristianesimo è solo la terza forma, quella che “paganizzò” il messaggio di Gesù de-giudaizzandolo. Il cristianesimo è quindi, nella mia interpretazione, la religione dei gruppi etnici che hanno aderito a Gesù “paganizzando” il giudaismo, cioè per esprimersi in termini più corretti: quei gruppi che eliminarono dal messaggio di Gesù gli elementi della cultura giudaica per essi non significativi o comprensibili e lo re-interpretarono e ricollocarono all’interno dei diversi sistemi culturali – non giudaici – dei “gentili”.
Nel libro L’uomo Gesù (Mondatori), di cui lei è autore insieme ad Adriana Destro, avete attribuito una importanza fondamentale alla “pratica di vita” di Gesù – più che alle parole o agli atti – nel metodo di ricerca storica sulla sua figura. Questo nuovo volume prosegue lungo lo stesso solco o introduce elementi di novità dal punto di vista metodologico?Lei ha ragione, nel libro L’Uomo Gesù, del 2008, Adriana Destro e io concentriamo l’attenzione quasi esclusivamente sulla pratica di vita di Gesù. Teniamo molto a questa scelta perché pensiamo che il primo messaggio di Gesù fosse il suo stile di vita e non le sue idee. Noi pensiamo che le idee di Gesù e il suo messaggio non siano comprensibili al di fuori della sua pratica di vita radicale: l’avere abbandonato il lavoro, la famiglia, il possesso di beni e la proprietà di una casa, vivendo poi in continua itineranza spostandosi da un villaggio all’altro ed evitando le città.
Però il messaggio di Gesù va anch’esso esaminato, soprattutto nel suo centro: il concetto di “regno di Dio”. Ma non si tratta di un mutamento di metodologia. Il libro L’Uomo Gesù, costituisce una prima fase della ricostruzione storica a cui, se avremo tempo e capacità, vorremmo far seguire altri libri sul messaggio di Gesù e sulle sue esperienze religiose.
In questo libro, mi concentro soprattutto sul concetto che Gesù ha del “regno di Dio”, in particolare nell’ultimo capitolo. Resta il fatto che il lavoro è dedicato soprattutto al problema del come il cristianesimo sia nato dopo la morte di Gesù distanziandosi dal suo messaggio.
Negli ultimi anni gli studi storici su Gesù hanno registrato un crescente interesse tanto negli ambienti scientifici e accademici quanto nel pubblico non specialistico (penso ad esempio allo straordinario successo di Inchiesta su Gesù). Contemporaneamente abbiamo assistito all’affermazione di un atteggiamento del tutto opposto da parte dei vertici della Chiesa cattolica, in particolare da parte di papa Ratzinger (che ha già dedicato due volumi a Gesù). Con l'avvento del "papa teologo" sembra si sia dispiegato pienamente un movimento di reazione verso un metodo – il metodo storico – che era ormai pienamente accettato non dico dal Concilio in poi, ma addirittura da Pio XII. Secondo lei questi due fatti – queste opposte tendenze – sono in connessione fra loro? E perché la Chiesa ha voluto intraprendere questa scelta di chiusura? Quali timori si nascondono dietro tale atteggiamento?In passato ho sostenuto diverse volte che il Concilio Vaticano II, con la riforma della liturgia e anche con la Costituzione dogmatica Dei Verbum ed altri importanti provvedimenti, ha cercato di mettere la Bibbia al centro dell’attenzione, della riflessione e della vita della Chiesa cattolica: a cominciare dal catechismo per i bambini e dalla preghiera quotidiana dei sacerdoti, per arrivare alla messa e alle altre forme liturgiche. Anche la teologia doveva cambiare per ispirarsi alla Bibbia. Gli studi dei biblisti, degli esegeti e degli storici dei decenni precedenti fornirono la base per mettere in atto questa profonda riforma.
Per mettere al centro della vita dei cattolici la Bibbia bisognava, però, che ciascun fedele, qualunque fosse la sua formazione e il suo livello culturale, avesse un accesso diretto ai testi biblici. A questo punto, il clero si accorse che i libri di esegesi prodotti dagli specialisti erano troppo difficili per essere utilizzati dal popolo fedele, il quale, per di più era disabituato ad un contatto diretto con i testi biblici e con un atteggiamento intellettuale libero e critico.
La risposta a questo problema – che è un problema assolutamente reale – è stata quella di evitare le difficoltà. Si è cercato di rimuovere il problema, fornendo un’interpretazione semplificata della Bibbia che non mettesse in contatto diretto i fedeli con i nodi della ricerca storica, con il fatto ad esempio che i quattro vangeli sono diversi l’uno rispetto all’altro, che la teologia di Paolo è diversa da quella di Giovanni, che ci sono state tante forme di cristianesimo primitivo, ecc. Che le forme teologiche, dogmatiche e istituzionali delle Chiese successive sono diverse da quelle di Gesù e dei suoi primi seguaci. Tutto questo, senza una formazione teologica almeno elementare, non poteva essere comprensibile dal popolo fedele, si pensava. Perciò si scelse di abbandonare sempre di più l’esegesi storica, che creava troppi problemi, a favore di un’interpretazione spiritualizzante e armonizzante dei testi biblici. All’esegesi storica venne sostituita poco alla volta un’esegesi puramente letteraria, narrativa. Si preferirono letture di ciascun vangelo che trascurassero le differenze con gli altri vangeli evitando sistematicamente di porre in luce tutte le tante e importanti differenze tra Gesù e gli scritti del Nuovo Testamento. Mentre decenni di ricerca dagli anni Settanta in poi riscoprivano l’importanza di molti testi cristiani non contenuti nel Nuovo testamento, il magistero preferì sostenere presso i fedeli che tutti i testi apocrifi erano molto più tardi del Nuovo testamento e senza vero e proprio significato religioso. Si cercava di distogliere i fedeli da questo supposto pericolo. Soprattutto, nei movimenti come Comunione e Liberazione, Cammino neocatecumenale, Rinnovamento nello Spirito ecc, i testi biblici vennero presi solo come oggetto di riflessione spirituale semplice e diretta, senza un vero tentativo di comprensione e contestualizzazione storica. L’esegesi veniva marginalizzata e guardata con sospetto se non si traduceva subito in discorso edificante e rispettoso degli assetti dottrinali e istituzionali che la gerarchia propugnava in quel momento.
Sul lungo periodo questa scelta ha avuto un effetto disastroso, perché ha prodotto a livello di base un’interpretazione dei testi di stampo fondamentalista. Non è che la Chiesa cattolica sia su posizioni fondamentaliste. La teologia dell’attuale papa non è una teologia fondamentalista. Però il desiderio giusto di dare la Bibbia al popolo, nelle mani del popolo semplice, ha trovato realizzazione in un modo che ha portato ad una forma di spiegazione della Bibbia che nega quelle differenze, quella evoluzione, quella trasformazione che è avvenuta tra Gesù e i suoi primi discepoli e che l’esegesi storica ha invece sempre riconosciuto e messo in luce. Tutto ciò produce inevitabilmente col tempo una deriva fondamentalista, soprattutto nei cosiddetti movimenti che controllano molta parte dei fedeli cattolici italiani.
A questo va aggiunto che il clero sempre di più sta assumendo una funzione paternalistica nei confronti dei “laici”, dei non preti. Al laico si cerca di fornire delle risposte pre-confezionate da accettare così come sono. Si cerca di evitare di fornire informazioni e strumenti critici ai laici affinché possano da soli percorrere un cammino di riflessione e di decisione critica sulle questioni della fede cristiana. In questo clima i libri che presentano al largo pubblico i grandi problemi storici sono considerati pericolosi e vengono osteggiati. In sostanza, lo storico e l’esegeta non dovrebbero porre problemi, ma solo fornire un’immagine di Gesù e delle origini cristiane che non turbi l’immagine tradizionalista che il clero ha negli ultimi decenni diffuso tra il popolo.
Il popolo dei fedeli però non sembra accontentarsi di questo…La mia esperienza di questi anni è che la gente ha un grande bisogno di conoscenza, ha bisogno di strumenti per conoscere e decidere personalmente. Dopo Inchiesta su Gesù si sono moltiplicati i libri sul Gesù storico in Italia e il dibattuto fra la gente, fuori e dentro gli steccati delle chiese, è diventato molto vasto. Dobbiamo diffondere la conoscenza dei testi e dei problemi affinché ciascuno abbia la possibilità di farsi un’opinione personale critica e sicura su temi così rilevanti per la propria vita. Ogni persona deve essere in grado di percorrere un proprio cammino di ricerca libera.
Ma alla base della diffidenza della Chiesa verso il metodo storico c’è solo questa ragione di carattere pastorale o ve ne sono anche altre? No, effettivamente ci sono anche altre ragioni. Nell’ultimo decennio del Novecento e nel primo decennio del Duemila è diventata prevalente in alcuni settori della gerarchia cattolica una preoccupazione teologica e ecclesiastica. Quella della difesa della funzione culturale dominante della Chiesa cattolica nella società. Da questo punto di vista, settori ampi della gerarchia cattolica e della teologia cattolica, soprattutto in Italia, sostengono che solo il magistero ecclesiastico fornisce un’immagine corretta della figura storica di Gesù. Per capire chi sia stato realmente Gesù bisognerebbe cioè aderire ai dogmi cristologici della chiesa, alla visione che la cosiddetta “tradizione” fornisce di Gesù. Chi si allontana dall’istituzione ecclesiastica e dai suoi dogmi si allontana anche da Gesù.
Questo atteggiamento, quando viene esasperato, porta ad un vicolo cieco, ad un atteggiamento autoritario e privo di autocritica e di capacità di dialogo con le altre chiese. La funzione della ricerca storica sta proprio infatti nel mostrare la figura storica di Gesù.
Le prospettive aperte delle ricerche storiche su Gesù sono uno strumento di grande valore per le teologie di tutte le chiese che possono trovare in esse dei motivi per ritornare ad un’autentica imitazione dalla figura di Gesù. Semplificando: le chiese hanno bisogno di una teologia che permetta loro di cambiare la chiesa ad immagine di Gesù e non di trasformare Gesù ad immagine della chiesa. Ma la chiesa può cambiare se stessa per farsi simile a Gesù, solo se accetta che la ricerca su Gesù mostri che l’interpretazione tradizionale di Gesù e delle origini cristiane non corrisponde a quella della teologia conservatrice cattolica di oggi.
Purtroppo la teologia cattolica romana nel suo tentativo di difendere ad ogni costo l’assetto dottrinale e istituzionale del cattolicesimo conservatore ha assunto sempre di più la ricerca storica su Gesù e sulle origini cristiane con un atteggiamento quasi esclusivamente apologetico: la ricerca storica viene usata soprattutto per difendere l’attendibilità di alcune posizioni dottrinali o istituzionali.
Dello stesso autore:
Un estratto da “Gesù fondatore del cristianesimo? I problemi di cui Gesù non aveva parlato” di Mauro Pesce
Gesù non era cristiano
di Paolo Flores d’ArcaisGesù non era cristiano. Era un ebreo osservante, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una “Chiesa”. Non si è mai sognato di proclamarsi il Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse “Cristo”, lo ha fulminato di anatema. All’idea di essere considerato addirittura “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”, secondo il “Credo” di Nicea, sarebbe stato preso da indicibile orrore.
Gesù era un profeta ebreo itinerante, esorcista e guaritore, che annunciava l’“euangelion” apocalittico del “Regno” incombente per intervento divino. Ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, per pochi mesi se stiamo ai tre sinottici, al culmine dei quali, recatosi a Gerusalemme, avendo provocato qualche disordine, viene condannato alla crocifissione per sedizione. Storicamente, una figura di minore importanza rispetto a Giovanni che battezzava sulle rive del Giordano, e ad altri predicatori apocalittici del suo tempo. Come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra “la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana del posto con la collaborazione, più o meno decisiva, di capi giudaici” [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002, p.39].
Alcune smaccate falsità
Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger nel suo libro appena uscito (Gesù di Nazaret – Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, che segue il primo volume pubblicato nel 2007) non è invece Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale.
Nulla di scandaloso, sia chiaro, se un Papa di Santa Romana Chiesa si mette a fare opera di teologia o di devozione intorno alla figura del Cristo. In fondo è il suo mestiere. Ma Joseph Ratzinger pretende di fare anche lo storico, di “giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù” (p. 9), perché “non possiamo dispensarci dall’affrontare la questione della reale storicità degli avvenimenti essenziali. Il messaggio neotestamentario non è soltanto un’idea; per esso è determinante proprio l’essere accaduto nella storia reale di questo mondo” (p. 119).
Spiace dirlo, ma per tener fede alla spericolata pretesa di dimostrare la continuità tra Gesù di Galilea e il Cristo di Nicea, il professor Joseph Ratzinger è costretto a prodursi in quelle che sotto il profilo storico sono vere e proprie falsità, talvolta incredibilmente smaccate. Dato il poco spazio potrò esaminarne solo un paio.
Il Papa sostiene che le primissime comunità che si formano intorno alla fede che Gesù sia risorto, malgrado “tutte le discussioni difficili su ciò che dei costumi giudaici avrebbe dovuto essere conservato e dichiarato obbligatorio anche per i pagani” (sta facendo riferimento alla durissima controversia che contrappone Paolo a Pietro), su un punto sono unanimi: “con la croce di Cristo l’epoca dei sacrifici era giunto al termine” (p. 58). La cosa gli sta particolarmente a cuore e vi insiste più volte: “tanto più sorprendente è il fatto che su una cosa – come si è detto – ci fosse concordiafindall’inizio:isacrifici del tempio – il centro cultuale della Torà – erano superati” (p. 257).
Questa affermazione è incontrovertibilmente falsa. Prendiamo gli “Atti degli apostoli” 24, 17: “ora, dopo molti anni, sono venuto a portare elemosine al mio popolo e per offrire sacrifici”. PER OFFRIRE SACRIFICI. Chi parla è l’apostolo Paolo, a Cesarea, dove è stato portato prigioniero per essere interrogato personalmente dal governatore Felice. Del resto, non potrebbe che essere così. L’offerta di sacrifici è il cuore della pratica religiosa ebraica, almeno quanto le preghiere. Per questo da tutta la Palestina e anche dalla diaspora–affrontando i rischi di lunghi viaggi – si viene in pellegrinaggio a Gerusalemme: il Tempio è il luogo per eccellenza dei sacrifici. Scannare e bruciare gli animali costituisce “il tratto più importante della vita liturgica del Tempio”, anche perché il sacrificio è cruciale come offerta di purificazione di peccati e colpe (voce Sacrifices and offerings in Eerdmans, Dictionary of the Bible, forse il più accreditato su scala internazionale).
Del resto gli “Atti” (che poi sono la seconda parte del vangelo di Luca) avevano riferito che “anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (6,7), e la funzione peculiare del sacerdote è proprio quello di sgozzare e bruciare gli animali sull’altare.
La ricerca neutralizzata
Altrettanto sconcertante il rifiuto di Ratzinger (in quanto storico) di prendere atto che la prima generazione dei “cristiani” aspettava il compiersi dei tempi e l’avvento apocalittico del Regno nel corso della sua stessa esistenza . Anche qui la testimonianza di Paolo è di cristallina evidenza. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, il testo più antico del Nuovo Testamento (probabilmente del 49) scrive : “Noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore” (4,15), segue la descrizione di quanto avverrà, voce di arcangelo, squillare della tromba di Dio, il Signore che discende dal cielo, e la sequenza delle risurrezioni e del rapimento comune dei fedeli tra le nuvole.
Il vangelo di Marco, che è scritto a distanza di una generazione (circa il 70, quasi certamente subito dopo la distruzione del Tempio ad opera di Tito) tramanda la stessa convinzione già annunciata da Gesù: “In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute (13,30). Tralascio le ulteriori testimonianze presenti in Paolo. La definitiva prova “a contrario” è data dalla seconda lettera ai Tessalonicesi, che smentirebbe la prima perché invita a: “non lasciarvi così facilmente confondere e turbare... da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente ” (2,2). Ma mentre 1 Tessalonicesi costituisce la prima delle sette lettere certamente autentiche, 2 Tessalonicesi costituisce una delle “pseudoepigrafiche”, scritte da esponenti paolini della successiva generazione, quando le comunità devono costruirsi una giustificazione teologica per la Parusia che tarda a venire.
La risurrezione, l’evento capitale
Si potrebbe continuare a lungo, purtroppo, tali e tante sono le acrobazie interpretative con cui Ratzinger cerca di neutralizzare due secoli e passa di ricerca storiografica che sulla incompatibilità tra Gesù di Galilea e il Cristo di Nicea hanno condotto ormai a risultati acquisiti.
Le aspre divisioni che ancora sussistono tra chi vede Gesù come uno “zelota” rivoluzionario oppure, sul versante opposto, come un semplice maestro di saggezza, e tutta la gamma delle posizioni intermedie che comunque contrastano con il “mainstream” del Gesù predicatore e guaritore di un incombente “fine dei tempi”, non mettono mai in discussione, infatti, ciò che è acquisizione comune: Gesù non si proclamò mai Figlio di Dio nel senso della “Seconda Persona”, non fondò nessuna Chiesa (ne nacquero moltissime, ciascuna con il suo “vangelo” spesso incompatibile con quelli concorrenti, e la tradizione che per prima scolorì fu proprio quella della comunità originaria di Gerusalemme – che sopravvive forse nella “eresia” degli ebioniti – il cui capo del resto era il fratello di Gesù, Giacomo, e non Pietro), i racconti delle “apparizioni” per provare la risurrezione “differiscono sotto ogni profilo” e “sono impossibili da conciliare” (Bart D. Ehrman).
La risurrezione ovviamente è l’evento capitale. Ratzinger riconosce che “nessuno aveva pensato ad un Messia crocefisso. Ora il ‘fatto’ era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo” (p. 273). Ma il “fatto” è la morte sulla croce. Della “risurrezione” abbiamo invece solo la testimonianza di come nel tempo (i vangeli sono redatti tra il 70 e il 110) si siano stratificate incompatibili “narrazioni” su come apostoli e discepoli elaborarono il “lutto”: si aspettavano il Regno, arriva la morte più infamante, fuggono (nessuno di loro è presente sul Golgota), poi qualcuno (Pietro, carico di sensi di colpa per averlo rinnegato? Una delle donne?) si convince di averlo “visto”, in un viandante, un giardiniere, o attraverso una apparizione di tipo mistico. E nelle Scritture cercano nuove interpretazioni che “prefigurino” gli eventi che hanno elaborato . Questo per quanto riguarda la storia. Altra cosa è la fede, ovviamente.
Ratzinger pretende invece l’impossibile, l’accertamento storico del “credo quia absurdum” (così, con orgoglio, proclamano i primi secoli di cristianesimo) o addirittura la ricerca storica come ancella del dogmatismo teologico.
(25 marzo 2011)
Il Gesù storico secondo Ratzinger
di Vito Mancuso, da Repubblica, 11 marzo 2011
Nel primo libro su Gesù pubblicato nel 2007 Benedetto XVI chiedeva ai lettori «quell'anticipo di simpatia senza il quale non c' è alcuna comprensione». Aveva ragione, perché occorre essere ben disposti verso l' autore di un libroo di una musica, come verso ogni persona che si incontra, per poter adeguatamente comprendere. È necessario però capire bene il senso della simpatia richiesta dal pontefice: nell' ambito teologico in cui si colloca non si tratta di un semplice sentimento, il quale peraltro c' è o non c' è perché nasce solo spontaneamente. Simpatia va intesa qui nel senso originario di patire-con, coltivando un comune pathos ideale. La domanda quindi è: qual è il pathos che ha mosso Benedetto XVI a pubblicare due volumi su Gesù di oltre 800 pagine complessive, di cui oggi arriva in libreria il secondo che riguarda, recita il sottotitolo, il periodo «dall' ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione»? La preoccupazione del Papa concerne il problema decisivo del cristianesimo odierno, a confronto del quale i cosiddetti "valori non negoziabili" (scuola, vita, famiglia) sono acqua fresca: cioè il legame tra il Gesù della storia reale e il Cristo professato dalla fede. Senza scuole cattoliche il cristianesimo va avanti, senza leggi protettive sulla famiglia e la bioetica lo stesso, anzi non è detto che una dieta al riguardo non gli possa persino giovare.
Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede "che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (...) se poi l' uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa", domanda retorica la cui unica risposta è "nessun significato" e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede. Chiaro l' obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (...) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l' autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l' esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale.
Questo è l' intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua "simpatia". Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell' equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale. Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell' esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di "deicidio" e le immani tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi "chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù", il Papa prende atto che "nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze": per Giovanni fu l' aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo "tutto il popolo" (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo "tutto il popolo", come si legge in 27,25, "Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?". Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l' equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l' impresa papale, cioè l' identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggior ragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale. Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un' impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c' è alcuna "res" al cui cospetto poter presentare solo un' obbediente "adaequatio" del proprio intelletto, non c' è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l' esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio.
Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che "sicuramente non esprime un fatto storico", ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l' etichetta "valori non-negoziabili" apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita). Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà.
(13 marzo 2011)
Ma senza il legame organico tra il fatto storico Gesù (Yeshua) e quello che di lui la fede confessa (che è il Cristo) tutto crolla, e alla Basilica di San Pietro non resterebbe che trasformarsi in un museo. Nella fondamentale premessa del primo volume, una specie di piccolo discorso sul metodo, il Papa si chiede "che significato può avere la fede in Gesù il Cristo (...) se poi l' uomo Gesù era così diverso da come lo presentano gli evangelisti e da come, partendo dai Vangeli, lo annuncia la Chiesa", domanda retorica la cui unica risposta è "nessun significato" e da cui appare quanto sia decisiva la connessione storia-fede. Chiaro l' obiettivo, altrettanto lo è il metodo: «Io ho fiducia nei Vangeli (...) ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio»; concetto ribadito nella premessa del nuovo volume dove l' autore scrive di aver voluto «giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù» a partire da «uno sguardo sul Gesù dei Vangeli». Il Papa fa così intendere che mentre l' esegesi biblica contemporanea perlopiù divide il Gesù storico reale dal Cristo dei Vangeli e della Chiesa, egli li identifica mostrando che la costruzione cristiana iniziata dagli evangelisti e proseguita dai concili è ben salda perché poggia su questa esatta equazione: narrazione evangelica = storia reale.
Questo è l' intento programmatico su cui Benedetto XVI chiede la sua "simpatia". Peccato per lui però che in questo nuovo volume egli stesso sia stato costretto a trasformare il segno uguale dell' equazione programmatica nel suo contrario: narrazione evangelica ? storia reale. Il nodo è la morte di Gesù, precisamente il ruolo al riguardo del popolo ebraico, questione che travalica i confini dell' esegesi per arrivare nel campo della storia con le accuse di "deicidio" e le immani tragedie che ne sono conseguite. Chiedendosi "chi ha insistito per la condanna a morte di Gesù", il Papa prende atto che "nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze": per Giovanni fu l' aristocrazia del tempio, per Marco i sostenitori di Barabba, per Matteo "tutto il popolo" (su Luca il Papa non si pronuncia, ma Luca è da assimilare a Matteo). E a questo punto presenta la sorpresa: dicendo "tutto il popolo", come si legge in 27,25, "Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?". Sono parole veritiere e coraggiose (per le quali sarebbe stato bello che il Papa avesse fatto il nome dello storico ebreo Jules Isaac e del suo libro capitale del 1948 Gesù e Israele, purtroppo ignorato), ma che smentiscono decisamente l' equazione programmatica che è il principale obiettivo di tutta l' impresa papale, cioè l' identità tra narrazione evangelica e storia reale.
Alle prese con uno dei nodi più delicati della storia evangelica, il Papa è stato costretto a prendere atto che i quattro evangelisti hanno tre tesi diverse, e che una di esse «sicuramente non esprime un fatto storico». Se questa incertezza vale per uno degli eventi centrali della vita di Gesù, a maggior ragione per altri. Ne viene quello che la più seria esegesi biblica storico-critica insegna da secoli, cioè la differenza tra narrazione evangelica e storia reale. Significa allora che tutta la costruzione cristiana crolla? No di certo, significa piuttosto che essa è, fin dalle sue origini, un' impresa di libertà. Non è data nessuna statica verità oggettiva che si impone alla mente e che occorre solo riconoscere, non c' è alcuna "res" al cui cospetto poter presentare solo un' obbediente "adaequatio" del proprio intelletto, non c' è nulla nel mondo degli uomini che non richieda l' esercizio della creativa responsabilità personale, nulla che non solleciti la libertà del soggetto. La libertà di ciascun evangelista nel narrare la figura di Gesù è il simbolo della libertà cui è chiamato ogni cristiano nel viverne il messaggio.
Se persino di fronte ai santi Vangeli la libertà del soggetto è chiamata a intervenire discernendo ciò che è vero da ciò che "sicuramente non esprime un fatto storico", ne viene che non esiste nessun ambito della vita di fede dove la libertà di coscienza non debba avere il primato (compresa la libertà di non prendere così tanto sul serio l' etichetta "valori non-negoziabili" apposta dal Magistero alla triade scuola-famiglia-vita). Affrontare seriamente la figura di Gesù, come ha fatto Benedetto XVI in questo suo nuovo libro, significa essere sempre rimandati alla dinamica impegnativa e responsabilizzante della libertà.
(13 marzo 2011)
di Enzo Mazzi, il manifesto, 13 marzo 2011
Rivela un affanno il nuovo libro su Gesù con cui papa Ratzinger si adopera a mostrare e dimostrare la storicità di Cristo e in particolare della morte-resurrezione di lui. Lo ammette chiaramente quando scrive: “la barca della Chiesa … spesso si ha l'impressione che debba affondare”. Ed ecco l’importanza della realtà pienamente divina e pienamente umana del Salvatore Gesù.
E’ Gesù Cristo l’unico salvatore e la chiave della salvezza universale. Ed è la Chiesa cattolica governata dal papa e dai vescovi uniti al papa la custode unica e universale per tutti i secoli della chiave affidatale da Gesù. Tutta la ricerca umana di senso della vita e di salvezza materiale e morale sarebbe completamente inutile senza il Dio che si fa uomo e offre in sacrificio la sua vita. Sono due millenni che queste “verità”, questi assoluti, vengono ripetuti identici, declinati in codici espressivi diversi tradotti in tutte le lingue del mondo ma sempre nella sostanza uguali a se stessi: è Gesù l’unico salvatore universale attraverso il suo sacrificio perenne.
Di fatto del Gesù storico non si sa quasi nulla. Ormai è un dato acquisito nella teologia biblica non servile. I Vangeli non sono la storia di Gesù ma la riflessione teologica in forme narrative o rituali delle comunità cristiane del primo secolo in ambiente pagano. Inoltre è accertato ormai che le più antiche testimonianze scritte non sono i Vangeli canonici. Sono le tradizioni dei cosiddetti “loghia”, cioè dei “detti” di Gesù. Che prima sono stati tramandati oralmente nell’ambiente palestinese e poi sono stati inseriti nei Vangeli.
Quei “detti” di Gesù sono “il Vangelo prima dei Vangeli”. Poi il Vangelo dei detti di Gesù è andato perso perché gli scribi smisero di farne copie in conseguenza della fissazione autoritativa del canone. Oggi si direbbe sbrigativamente che ha subito una censura. E’ stato recuperato o riscoperto nel 1838, attraverso un delicato lavoro di filologia, incastonato nei Vangeli canonici. E’ stato pubblicato solo nel 2007 in italiano dalla Queriniana in un volume a cura di un grande specialista, James M. Robinson: I detti di Gesù. Questo ritardo di quasi due secoli la dice lunga sulle resistenze poste dall’autorità ecclesiastica alla pubblicazione di un testo storico che mette in crisi le certezze dogmatiche.
Perché è importante questo “Proto-Vangelo”? Perché l’immagine di Gesù che se ne ricava è molto diversa da quella fissata nelle narrazioni canoniche dei Vangeli. E soprattutto è diversa l’immagine che si ricava del cristianesimo nascente. Non ci sono che nel sottofondo racconti di miracoli e soprattutto non c’è notizia dei fatti della nascita, della morte e della resurrezione. Questa assenza di eventi così fondamentali per i Vangeli canonici e poi per il dogma è impressionante.
L’accento è posto non sulla persona di Gesù ma sul messaggio e sul movimento messianico di impegno per la realizzazione del “Regno di Dio”. Il quale tradotto in termini moderni si potrebbe definire come movimento per un “mondo nuovo possibile”.
Il Gesù del “Proto-Vangelo” è soprattutto un “figlio dell’uomo” che alla lettera può significare “Figlio dell’umanità”, parte di un movimento storico di liberazione radicale. C’è in quel documento solo un’eco flebile del processo di mitizzazione della persona di Gesù che è appena agli inizi e che però presto sfocerà nella divinizzazione. E’ assente l’essere divino-umano, il dio incarnato che si sacrifica per redimere l’umanità peccatrice. Il quale invece sarà poi offerto soprattutto dalla Chiesa di Paolo al mondo pagano avido di sacro e di salvezza mistica.
Ovviamente le persone all’origine di questo Proto-Vangelo, che di bocca in bocca si tramandavano i detti di Gesù, conoscevano la morte di Gesù. Ma per loro la morte del profeta non aveva il significato di sacrificio. Non si sentivano impegnati ad annunciare la morte. “Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti” – è un’affermazione fondamentale del Proto-Vangelo. Non la morte né il sacrificio né il miracolo aveva cambiato la loro vita. Ma il messaggio culturalmente rivoluzionario di Gesù aveva dato un senso nuovo alla loro esistenza; in quello e non nel miracolo trovavano il senso della resurrezione; quel messaggio e l’esperienza di vita che c’era dietro si sentivano impegnati ad annunciare perché cambiasse la vita di molti e trasformasse radicalmente la società dando vita a un mondo nuovo.
La teologia sacrificale del Cristo che salva in quanto Figlio di Dio morto e risorto verrà dopo, quando il cristianesimo dovrà rivolgersi al mondo pagano. Sarà tale teologia la carta vincente, il fulcro del trionfo della nuova religione. Un trionfo però contestato da persone, anche sinceramente credenti, con senso critico, lungo tutta la storia, dall’antichità fino ad oggi, quale tradimento e devitalizzazione del Dna generativo del movimento di Gesù.
(13 marzo 2011)
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