IL MONDO E' COME UNO SPECCHIO

Osserva il modo in cui reagisci di fronte agli altri. Se scopri in qualcuno una qualità che ti attrae, cerca di svilupparla in te stesso. Se invece osservi una caratteristica che non ti piace, non criticarla, ma sforzati piuttosto di cancellarla dalla tua personalità. Ricorda che il mondo, come uno specchio, si limita a restituirti il riflesso di ciò che sei.

giovedì 24 luglio 2014

La litania delle riforme

Sta avvenendo qualcosa di paradossale, l'Italia avrebbe drammaticamente bisogno di riforme che rilancino la sua economia e il lavoro, fermino la disoccupazione e l'emorragia di imprese, rilancino gli investimenti (sostenibili) eccetera, che avrebbero un inevitabile impatto sul bilancio dello Stato che però è stretto mortalmente nella morsa dei trattati europei (fiscal kompact e relativo pareggio di bilancio peraltro introdotto in Costituzione senza avvallo democratico, MES, ecc). Si fa invece gran clamore di riforme costituzionali, a costo zero, che tagliano però democrazia e partecipazione, spacciandole come motore di ripartenza dell'Italia stessa.

Essendo che tali riforme non prevedono nemmeno riduzioni di costi si tratta di una colossale mistificazione, avvallata dalla totalità dei media e dei giornalisti.
La nostra Costituzione, basata su riferimenti di tipo keinesiano (basti pensare al suo articolo 1), secondo il nostro attuale Governo (e secondo il Presidente della Repubblica che ne dovrebbe essere il suo primo difensore) deve mutare e diventare sempre più attinente al pensiero unico neoliberale del nuovo ordine mondiale guidato dai detentori del potere finanziario.


A tale proposito propongo un chiaro intervento di Marco Della Luna.


"Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente.
La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo:
-svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari
-concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali
-isolamento tecnocratico degli organismi decidenti
-soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria
-riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti
-riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti
-riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni.
Queste caratteristiche sono marcatamente proprie soprattutto dell’UE: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi. L’unico organo elettivo, cioè il parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’UE: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza.
Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’UE.
La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché F. Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’UE fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.
Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche.
Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.
La Costituzione italiana è esplicitamente keynesiana: l’art. 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’UE e della BCE, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale.
La storia della c.d. integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassistimo finanziario e autocrazia. E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano.
In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme, di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici – soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti – sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli.
La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. (...)
Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’UE porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’UE e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.
24.07.14 Marco Della Luna"

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DOVE PORTANO QUESTE RIFORME



Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente.

La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo:

-svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari

-concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali

-isolamento tecnocratico degli organismi decidenti

-soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria

-riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti

-riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti

-riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni.

Queste caratteristiche sono marcatamente proprie soprattutto dell’UE: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi. L’unico organo elettivo, cioè il parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’UE: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza.

Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’UE.

La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché F. Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’UE fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.

Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche.

Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.

La Costituzione italiana è esplicitamente keynesiana: l’art. 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’UE e della BCE, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale.

La storia della c.d. integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassistimo finanziario e autocrazia. E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano.

In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme, di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici – soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti – sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli.

La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici.

Nel 1999 l’Ocse tracciava una sintesi delle riforme economiche attuate in numerosi paesi nel decennio che si stava chiudendo. In breve, le linee lungo le quali si era sviluppata l’azione di politica economica in quel decennio e lungo le quali si sarebbe sviluppata negli anni seguenti sono queste:

i) Ampliamento degli strumenti finanziari e riduzione della regolamentazione dei sistemi finanziari;

ii) Riduzione delle aliquote per i redditi più alti;

iii) Liberalizzazione dei movimenti dei capitali e ulteriore liberalizzazione del commercio internazionale;

iv) Deregolamentazione e privatizzazione nei settori delle utilities;

v) Restrizioni all’utilizzo delle politiche industriali;

vi) Flessibilizzazione dei mercati del lavoro e irrigidimento dei criteri di fruizione del welfare state;

vii) Riduzione dell’area dell’intervento pubblico nell’economia;

viii) Riduzione degli oneri, legali ed economici, allo svolgimento dell’attività d’impresa.

Maurizio Zenezini, in Riforme economiche e crescita: una discussione critica, Quaderni del dipartimento di economia politica e statistica dell’Università di Siena, n.696 – Aprile 2014, studiando come, negli ultimi vent’anni, i paesi europei hanno introdotto numerose riforme economiche orientate a rendere le istituzioni economiche più “favorevoli ai mercati”, nella convinzione che l’ambiente regolativo costituisca un fondamentale fattore di crescita economica. In base ai dati empirici, ossia sottoponendo queste riforme alla prova dei fatti, gli effetti sulla crescita e l’occupazione dei più recenti interventi di riforma in Italia appaiono virtualmente nulli nel breve periodo e modesti, nel migliore dei casi, nel lungo periodo. O meglio, risultano nettamente negativi: le riforme flessibilizzanti del mercato del lavoro hanno peggiorato l’occupazione, le riforme bancarie hanno destabilizzato il sistema bancario, etc.

Di fronte agli insuccessi delle riforme che ha imposto, l’OCSE le difende con gli argomenti più arbitrari, chiaramente in mala fede, come il dire che, se non le si fosse fatte, ora le cose andrebbero molto peggio. Conclude Zenezini:

“Se le riforme non mantengono le loro promesse, potremo dichiarare che l’efficacia di una riforma già effettuata dipende da qualche altra riforma ancora da effettuare che, a sua volta, richiederà quasi certamente riforme in nuove direzioni: le riforme del mercato del lavoro non funzionano se i mercati dei prodotti restano rigidi, le riforme delle utilities non funzionano se il commercio al dettaglio resta impantanato nelle regolamentazioni comunali, se le lavanderie restano chiuse il sabato pomeriggio, se i giudici non compilano il “calendario udienze” (Ocse, 2013a, p. 86).

In alternativa, si potrà affermare che le riforme agiscono nei tempi lunghi, mentre gli effetti di breve termine sono difficili da modellare, e potrebbero anche essere negativi: “le riforme […] dovrebbero aumentare il prodotto potenziale di lungo periodo, ma la grandezza di questo effetto, specialmente nel breve periodo, è difficile da stimare con qualsiasi grado di precisione” (Ocse, 2013a, p. 84).

Potremmo, infine, puntare il dito contro gli indici “formali” di deregolamentazione.

Gli organismi economici internazionali hanno misurato le numerose riforme fatta in Italia, su questa base esperti e responsabili della politica economica hanno regolarmente tracciato bilanci di tale attivismo riformatore, ma, dato che il paese si è infilato in una traiettoria di declino economico, “si può sospettare che i principi legali della regolamentazione delle attività economiche divergano dalla pratica, o dalla loro percezione, in Italia più che in altri paesi” (Ocse, 2013a, pp. 82 sgg.): se le riforme non funzionano, dovremo rivedere gli indici delle regolamentazioni.

Sarebbe impossibile fornire un’immagine più sconcertante della irresponsabilità che costituisce la cifra latente della politica economica degli ultimi decenni. Nessun riesame delle riforme effettuate è permesso, è impedita la discussione su politiche economiche alternative: se le riforme non funzionano, si può sempre dire che senza di esse le cose sarebbero andate peggio, se gli indici di deregolamentazione non sono correlati con la desiderata performance potremo denunciare l’insufficienza degli indici, se le riforme hanno effetti trascurabili, si chiederà comunque di rafforzarle e di aumentare la flessibilità, se una riforma mirata ad un particolare obiettivo non ha successo, si modificherà l’obiettivo o si punterà in qualche altra direzione.

E’ la stessa irresponsabilità che Keynes denunciava nel 1925 esaminando le conseguenze dellapolitica economica del governo Churchill (Keynes, 1925): Poiché il pubblico afferra sempre meglio le cause particolari che le cause generali, la depressione verrà attribuita alle tensioni industriali che l’accompagneranno, al piano Dawes, alla Cina, alle inevitabili conseguenze della grande guerra, ai dazi, alle tasse, a qualunque cosa al mondo fuorché alla politica monetaria generale, che è stata il motore di tutto.”

Da quanto detto prima appaiono alcune evidenti realtà, confermate dai fatti:

-in un sistema basato sulla moneta-debito, salvo ripudiare il debito o condonarlo o eliminare i creditori, è matematicamente impossibile azzerare o anche solo ridurre il debito complessivo;

-quindi chi lo propone come principio di virtuosità o come obiettivo o è un cretino o è un mistificatore;

-un singolo paese, se è competitivo nelle esportazioni, può ridurre e persino azzerare il proprio debito estero realizzando avanzi della bilancia delle partite correnti, cioè prendendo denaro da altri paesi, ma ciò matematicamente aggrava in pari misura l’indebitamento estero di questi altri paesi; analogamente, un particolare cittadino, un’impresa, un ente pubblico può chiudere i propri debiti accumulando attivi negli scambi con gli altri soggetti economici, ma ciò si traduce in un pari aumento dell’indebitamento di questi; tuttavia, siccome l’indebitamento complessivo inarrestabilmente cresce per effetto dell’accumularsi degli interessi, tutti i paesi, tutti gli altri soggetti in competizione tra loro tendono ad affondare nell’indebitamento (in metafora: su una barca che sta affondando io mi posso salvare arrampicandomi sulle tue spalle, ma solo provvisoriamente);

-ridurre il debito aggregato implica ridurre la liquidità nel sistema, perché tutta la liquidità è debito-credito;

-quindi comporta un aumento delle insolvenze e dei fallimenti;

-causa inoltre calo della domanda aggregata, quindi calo degli investimenti produttivi, i quali vengono fatti in base alle aspettative di redditività al netto delle tasse; sicché se i potenziali investitori vedono che la prospettiva è di tagli alla spesa pubblica, alta tassazione, riduzione del debito-liquidità, allora prevederanno che la domanda sarà bassa, cioè che non ci sarà domanda solvibile per i loro prodotti, perciò investiranno altrove.

Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno -la BCE e/o la Fed-, comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.

D’altronde le banche italiane (ma non solo italiane) sono piene di sofferenze sommerse, ossia non dichiarate, e magari fanno aumenti di capitale di miliardi, uno dopo l’altro, per un multiplo della valorizzazione di borsa, ogni volta bruciando la liquidità acquista, in base a bilanci falsi, che nascondono questa realtà. Se essa affiorasse, avremmo il global meltdown del sistema bancario. A quale cliente una banca presterebbe il triplo di quello che vale in borsa? Qui siamo davvero “au bord du gouffre”! Eppure il sistema globale non pare aver esaurito la sua capacità di rilanciare e differire. I numeri sono infiniti, quindi, essendo la moneta fatta di numeri, infinita è anche la possibilità di rinviare la soluzione degli squilibri finanziari…

Negli ultimi 20 anni o poco più un altro fattore è all’opera, a danno dell’economia reale e dell’occupazione: il settore speculativo, remunerando i capitali in esso investiti in tempi assai più brevi del settore produttivo dell’economia (consideriamo che un’operazione speculativa può durare mesi o giorni, mentre il ritorno negli investimenti industriali si può avere solo dopo anni), quindi dando rendimenti maggiori di quest’ultimo, sottrae al medesimo molti capitali, tendendo a lasciarlo a secco. Addirittura vediamo che molte banche, dopo aver ricevuto fondi pubblici o della banca centrale, non li prestano, ma li usano in parte per comperare titoli pubblici al fine di migliorare la loro capitalizzazione e di lucrare le cedole, e in parte per speculare, fare trading, in proprio.

Conseguenza di questa competizione sui rendimenti, è che il settore produttivo, per cercare di trattenere i capitali offrendo loro una remunerazione competitiva col settore speculativo, si forza di dare, anno per anno, i massimi utili-dividendi possibili, e a tal fine fa alcune cose aventi un impatto negativo sull’occupazione, sulla produzione e sulla competitività, soprattutto nel lungo periodo:

a)riduce la produzione dal livello che dà il massimo ricavo totale al livello che dà il massimo ritorno sul capitale investito (quindi fa tagli agli impianti e alle maestranze);

b)riduce quanto possibile le spese correnti (compresi salari e manutenzione) nonché per investimenti (compresa l’innovazione) necessari a mantenere le posizioni sul mercato, cioè sacrifica gli obiettivi di medio e lungo termine a quelli di budget – da qui il termine budgetismo, che indica questa distorsione della politica aziendale.

L’ottimizzazione del bilancio è anche richiesta dal bisogno di avere un buon rating dell’affidabilità bancaria, onde mantenere le linee di credito e contenere i tassi di interesse.

Consideriamo anche che i managers degli investitori istituzionali come i fondi di risparmio e quelli pensionistici sono pagati in ragione al volume degli investimenti che attirano, e che questo dipende dai rendimenti che raggiungono, e che questi rendimenti a loro volta dipendono dai rendimenti delle azioni, ad esempio, che hanno in portafoglio. I rendimenti delle azioni dipendono ampiamente dai dividendi che si prevede che staccheranno, quindi di nuovo dalla prestazione anno per anno. Anno per anno, perché i managers restano usualmente in carica pochi anni, sicché non si interessano a come andrà una determinata corporation nel medio o lungo termine. La strategia delle imprese dell’economia reale avrebbe bisogno di pianificazioni e respiro di molti anni, specialmente in campi ad alta tecnologia; ma tutto cospira a distorcerla in funzione dei criteri dell’economia improduttiva. “Tutto questo è il mercato, quindi va bene, interferire sarebbe sbagliato” obietteranno alcuni. In effetti, è il mercato finanziario che interferisce con quello produttivo, cioè con quel mercato che, secondo la teoria, se libero e trasparente, dovrebbe, in base alle leggi sue proprie, portare alla piena occupazione e alla stabilità. E le interferenze del mercato finanziario nuocciono palesemente a quello produttivo. Molte società valide, quando si quotano in borsa, incominciano in effetti a subire queste interferenze disturbanti, che le fanno degenerare gestionalmente. Ciò succede regolarmente con le banche italiane che vanno in borsa. L’idea che la borsa serva a finanziare e a premiare la buona gestione delle imprese è smentita e capovolta dai fatti.

Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’UE porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’UE e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.

24.07.14 Marco Della Luna


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L'eversione costituzionale
La partitocrazia italiana si è ora saldamente unita in modo trasversale, destra e sinistra, per realizzare di corsa le famose riforme. Riforme che non c’entrano col rilancio economico. L’Italicum è stato concordato tra Renzi e Berlusconi per sopprimere i partiti piccoli e autonomi, non radicati nel controllo della spesa pubblica. Soprattutto la nuova legge elettorale e il nuovo Senato, che hanno la funzione di blindarla contro la protesta, il dissenso, il potenziale voto contrario dei cittadini traditi e derubati dai partiti. Si noti che il Senato viene preposto alla regolazione della spesa pubblica e consegnato agli uomini degli apparati partitici regionali, ossia la parte peggiore, più vorace, della partitocrazia. Potranno mangiare più che mai, spalleggiati e legittimati anche dagli interessi stranieri.
È già in programma anche una riforma della giustizia per mettere a guinzaglio quei giudici che restano fedeli alla Costituzione e alla Repubblica. La voteranno tutti insieme, trasversalmente. Sono già d’accordo. E poi qualcuno avrà diritto alla grazia.
Ribadiamo che le promesse di risanamento e rilancio entro il modello economico vigente sono pura menzogna. Per tornare alla crescita e all’occupazione è indispensabile, innanzitutto, spiegare il complotto alla gente, specialmente agli imprenditori e ai lavoratori, uscire dalla struttura sopra descritta, dall’Euro, dall’UE e disfarsi dei personaggi politici e istituzionali che la assecondano.
L’eversione costituzionale consiste essenzialmente nel sostituire, con l’inganno e le crisi create ad hoc, il sistema socioeconomico legittimante stabilito nella Costituzione con uno incompatibile con esso perché antidemocratico ed oligarchico. In tutta l’Europa occidentale, con le riforme iniziate alla fine degli anni 70, il modello di sviluppo economico e giuridico democratico, favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito, a colpi di emergenze preordinate, con un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide, subordinando a questo fine antisociale e incompatibile coi principi costituzionali, la crescita economica, la quale in effetti è stata quasi arrestata, e trasformando strumentalmente gli ordinamenti giuridici e costituzionali dei paesi interessati. Di questo si è più ampiamente parlato nel precedente articolo dal titolo Dove portano queste riforme.
RIFORME E ALTO TRADIMENTO
RIFORME E ALTO TRADIMENTO
Il grande mutuo (Antonino Galloni, Editori Riuniti, Roma 2007) preannunciava l’imminente esplosione di un’imponente crisi finanziaria e di liquidità dopo l’inizio, anni prima, delle problematicità nell’economia reale. Quasi contemporaneamente, in epoca di grandi promesse europeiste al pubblico, un altro saggio,Basta con questa Italia (Marco Della Luna, Arianna Editrice, 2008), scritto nel 2007, anticipava che l’Italia, come sistema paese, con le sue aziende pubbliche e private meno competitive di quelle straniere, sottocapitalizzate, sotto finanziate, strozzinate, vessate da fisco e pubblica amministrazione, incapaci di significativi avanzamenti tecnologici, sarebbe stata rilevata dal capitale straniero, che la avrebbe riformata e gestita secondo i propri interessi, e certo non secondo quelli degli Italiani.
Esattamente questo sta avvenendo puntualmente e con la collaborazione della politica e delle istituzioni di questo paese nonché dell’Unione europea e della Banca centrale europea, che hanno creato ad arte le condizioni affinché ciò avvenisse. Queste condizioni sono essenzialmente una grave carenza di liquidità, che si pretende di combattere con misura fiscali e budgetarie che invece la aggravano, gettando il Paese nelle mani del capitalismo imperialista appoggiato dalla BCE.
L’eversione costituzionale consiste essenzialmente nel sostituire, con l’inganno e le crisi create ad hoc, il sistema socioeconomico legittimante stabilito nella Costituzione con uno incompatibile con esso perché antidemocratico ed oligarchico. In tutta l’Europa occidentale, con le riforme iniziate alla fine degli anni 70, il modello di sviluppo economico e giuridico democratico, favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito, a colpi di emergenze preordinate, con un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide, subordinando a questo fine antisociale e incompatibile coi principi costituzionali, la crescita economica, la quale in effetti è stata quasi arrestata, e trasformando strumentalmente gli ordinamenti giuridici e costituzionali dei paesi interessati. Di questo si è più ampiamente parlato nel precedente articolo dal titolo Dove portano queste riforme.
Per completezza, evidenziamo qui tre circostanze.
La prima: non ostante tutto, le imprese italiane esportano più di quanto il sistema Italia importi – quindi hanno un buon potenziale medio di profitto, sono interessanti, fanno gola.
La seconda: la Germania ha fatto e fa imbrogli di tutti i generi ma ha fatto anche una delle cose giuste fino a due anni fa: investimenti dei privati in innovazione tecnologica che riducono il clup (costo del lavoro per unità di prodotto); ma le imprese tedesche hanno potuto farlo perché disponevano di ciò di cui non dispongono le imprese italiane, ossia di un ceto politico-amministrativo abbastanza non dedito al “mangiare”, abbastanza competente, capace di progettualità di medio-lungo termine. Disponevano anche di un mercato interno con un reddito e una capacità di assorbimento non in contrazione strutturale.  
La terza: da due anni la stessa Germania sta contenendo la propria domanda interna ed è in uno squilibrio dovuto a eccesso di avanzo commerciale che corrisponde al disavanzo di altri. E’ vero che a tale avanzo non corrisponde un disavanzo dell’Italia, ma nondimeno quell’avanzo è utilizzabile per comperare, in Italia, servizi in via di privatizzazione. Poi dobbiamo tenere presenti le decisioni di Draghi del 5 giugno scorso, o meglio le sue promesse di intervenire miratamente per sostenere il credito bancario all’economia reale, “nei limiti del mandato della BCE”. Espressioni allusive, indeterminate, ambigue, che prospettano una variabile ad oggi ancora tale.  
Il trasferimento a costo tendenzialmente nullo o quasi delle aziende italiane al capitale soprattutto straniero o apolide è avvenuto e sta avvenendo attraverso due primari strumenti.
Innanzitutto l’euro, quale blocco degli aggiustamenti fisiologici dei cambi quindi delle bilance dei pagamenti, che ha l’effetto di rendere meno esportabili le produzioni italiane favorendo invece quelle dell’area del marco, di aumentare l’indebitamento estero dell’Italia, di rendere più difficile ottenere crediti in Italia.
In secondo luogo, la tempistica della riduzione del costo del lavoro quindi del costo di produzione per unità di prodotto: la Germania, aiutandosi slealmente con lo sforamento del limite del 3% del deficit sul Pil (autorizzato dall’Italia), nonché con trucchi contabili e con illeciti aiuti di Stato alle imprese, ha ridotto prima di Italia e altri paesi il suo costo del lavoro per unità di prodotto. Lo ha fatto anche introducendo forme di impiego a 250 e € 450 al mese, dette minijob e midijob.
Avendo ridotto il costo del lavoro per unità di prodotto prima dell’Italia e beneficiando del blocco dei cambi che deprezzava il suo cambio “naturale”, ha potuto esportare verso l’Italia e altri paesi periferici molto più di quanto importava da essi, realizzando così per molti anni forti saldi attivi della bilancia dei pagamenti, ed indebitando quei paesi verso di sé, tanto più che prestava loro soldi per importare i suoi prodotti (caso estremo: la Grecia). Ciò le ha permesso e le permette di rastrellare a basso costo aziende valide o potenzialmente produttive e redditizie di quei paesi per integrarle nei propri cicli produttivi lasciando ad esse, cioè in Italia, le briciole dei margini di utile, e chiudendo o convertendo quelle di esse che siano in contrasto o concorrenza con imprese tedesche. Gli utili di queste aziende a rastrellate vengono trattenuti o deportati in Germania.
L’operazione di rastrellamento si sta estendendo, con la partecipazione della Francia, al settore dei servizi pubblici, il quale, beneficiando di posizioni di monopolio di fatto o di diritto, e rivolgendosi a una domanda rigida, cioè incapace di ridursi significativamente a fronte di incrementi tariffari, è un settore che produce fortissimi utili con caratteristiche di vendite. Utili e rendite che vengono raccolti e che saranno sempre più raccolti dalle tasche dei cittadini e delle imprese italiane per essere deportati in Germania e in Francia. Probabilmente l’asse franco-tedesco per dominare l’UE si basa su accordi di questo tipo.
Al fine di massimizzare l’utile di questa operazione, sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi, questo capitalismo mercantilista e imperialista ha bisogno di fare le cosiddette riforme, le quali in sostanza sono riduzioni dei diritti economici e non economici dei lavoratori anche autonomi, aumento della loro sudditanza al datore di lavoro, aumento dei livelli di precariato e di disoccupazione sotto occupazione in funzione di battere la forza contrattuale dei lavoratori. Analogamente vengono colpiti i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani, commercianti, che non si prestano al piano di conquista dell’imperialismo mercantile franco tedesco.
Per realizzare pienamente questa operazione di take-over sui servizi pubblici, è necessario farli privatizzare. A questo fine essi vengono, attraverso opportune campagne mediatiche, presentati come inefficienti, corrotti, dispendiosissimi, costosi, parassitari. Non si dice che investire in essi aumenterebbe la loro efficienza in quanto li doterebbe di strumenti oggi mancanti, e avrebbe un sicuro effetto di moltiplicatore del Pil, mentre il togliere loro fondi ha un effetto demoltiplicatore. Come ulteriore strumento per sabotarli, li si sta sovraccaricando di oneri e spese anche attraverso la politica di immigrazione di massa senza limitazioni, che sta ponendo un onere crescente e potenzialmente enorme alla spesa pubblica per l’accoglienza, mantenimento, cure sanitarie, alloggio, ricongiungimenti familiari.
Quando la situazione diverrà esplosiva per i crescenti costi così suscitati da una parte e per la crescente disoccupazione e recessione dall’altra, con ulteriori maggiorazioni delle tasse, la popolazione stessa chiederà la privatizzazione estesa dei servizi sociali ora ancora in mano pubblica. A quel punto, capitali stranieri entreranno e occuperanno queste posizioni di mercato collegate a rendite monopolistiche.
Sottolineo che la Germania e i suoi satelliti riescono a sfruttare questo processo perché hanno eseguito prima dell’Italia e di altri paesi le riforme consistenti nella riduzione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori, acquisendo grazie ciò, per una mera ragione di anteriorità temporale ovviamente studiata apposta, quei vantaggi commerciali, quegli attivi negli scambi con l’Italia, quei conseguenti crediti verso di essa, che poi spendono ora per rastrellare le imprese e i servizi italiani.
La Banca centrale europea, l’Unione Europea, Maastricht, l’euro, vertici istituzionali, tutti concorrono a questo scopo strategico, spingendo per le riforme che l’Europa ci chiede. Ossia, tutti questi soggetti lavorano per cedere trasferire al capitale straniero le risorse e le aziende del paese e insieme per trasformare i lavoratori italiani in forza lavoro sottopagata e sottomessa dei nuovi padroni finanziari stranieri. In compenso di questa prestazione di tradimento, la nostra casta politica si riserva il ruolo di complice dei capitali stranieri, onde mantenere le sue poltrone e i suoi privilegi.
Intorno a questo progetto, la partitocrazia italiana si è ora saldamente unita in modo trasversale, destra e sinistra, per realizzare di corsa le famose riforme. Riforme che non c’entrano col rilancio economico. L’Italicum è stato concordato tra Renzi e Berlusconi per sopprimere i partiti piccoli e autonomi, non radicati nel controllo della spesa pubblica. Soprattutto la nuova legge elettorale e il nuovo Senato, che hanno la funzione di blindarla contro la protesta, il dissenso, il potenziale voto contrario dei cittadini traditi e derubati dai partiti. Si noti che il Senato viene preposto alla regolazione della spesa pubblica e consegnato agli uomini degli apparati partitici regionali, ossia la parte peggiore, più vorace, della partitocrazia. Potranno mangiare più che mai, spalleggiati e legittimati anche dagli interessi stranieri.
È già in programma anche una riforma della giustizia per mettere a guinzaglio quei giudici che restano fedeli alla Costituzione e alla Repubblica. La voteranno tutti insieme, trasversalmente. Sono già d’accordo. E poi qualcuno avrà diritto alla grazia.
Ribadiamo che le promesse di risanamento e rilancio entro il modello economico vigente sono pura menzogna. Per tornare alla crescita e all’occupazione è indispensabile, innanzitutto, spiegare il complotto alla gente, specialmente agli imprenditori e ai lavoratori, uscire dalla struttura sopra descritta, dall’Euro, dall’UE e disfarsi dei personaggi politici e istituzionali che la assecondano.
In parallelo, occorre avviare una revisione del concetto di moneta oggi in uso, la fiat currency, e capire-far capire, con tutte le conseguenze, che essa non è una merce né una materia prima, ma un simbolo, generato col computer e senza costi; non ha quindi senso logico parlare di scarsità o mancanza di mezzi finanziari per gli investimenti necessari e utili alla società, anzi è un crimine eversivo e contro l’umanità fingere che vi sia una tale scarsità o mancanza, e usare questa finzione per impadronirsi di un paese e della sua economia reale, e per deprimere i salari e i livelli occupazionali.
E, ancora più fondamentalmente, occorre capire e far capire che l’illusione che i mezzi monetari siano una merce, che abbiano un valore intrinseco, costino a prodursi, siano oggettivamente limitati, è il principale e indispensabile strumento per far accettare alla società e, soprattutto, ai ceti produttivi il progetto dominante della politica da qualche decennio, ossia il graduale trasferimento-accentramento dei redditi, della ricchezza esistente e dei diritti (civili e politici) dalle mani dei lavoratori (dipendenti e autonomi) alle mani del cartello dei produttori dei mezzi monetari che in cambio non produce e non dà alcuna ricchezza reale alla società.
27.07.14 Marco Della Luna e Antonino Galloni

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