Incredibilmente, proprio da un governo a guida PD (nel senso di erede di un partito che faceva delle esigenze dei lavoratori il suo primo obbiettivo, la stessa ragione di esistere), arriva un ulteriore e -forse- finale intento di definitiva abolizione dell'articolo 18.
Oltre al fatto che ci sono già un sacco di ragioni legittime per licenziare, e le vedremo dopo, e che la Fornero abbia ulteriormente ridotto le tutele e depotenziata tale legge (si veda scheda in fondo), ora arriva un ulteriore intento, venduto al popolo con la complicità dei media come un mezzo per aumentare le possibilità di lavoro mentre questo è un palese falso, di attaccare i lavoratori dipendenti. Il lavoratore, più precario è, meno sicuro è del suo futuro, e meno spende. Siamo già in crisi nera di consumi e investimenti, e invece di introdurre tutele per dare fiducia ai consumatori si fa esattamente il contrario.
La conclusione che se ne deve trarre è che il reale intento è dare la possibilità ai datori di lavoro di licenziare il lavoratore/lavoratrice anche discriminando.
Vogliono poter licenziare il lavoratore che sciopera, quello che diventa vecchio o inviso per qualsivoglia ragione, la lavoratrice rimasta in stato di gravidanza, quello che non c’è la fa a seguire dei ritmi di lavoro, quello che si ammala, quello che manifesta idee diverse da quelle del datore di lavoro, quello che ha il coraggio di pretendere i dispositivi di sicurezza, quello che non accetta i soprusi e le ingiustizie ecc. ecc.
Quando Renzi e la Confindustria asseriscono che l’economia italiana potrebbe riprendere ed assumere più persone abolendo l’articolo 18, mentono sapendo di mentire.
Quale economia può considerarsi competitiva sui mercati? Quella fondata sulla eliminazione dei diritti o una competitività fondata su investimenti su impianti e prodotti, che punti anche alla formazione e valorizzazione dei dipendenti ?
Quale economia può considerarsi competitiva sui mercati? Quella fondata sulla eliminazione dei diritti o una competitività fondata su investimenti su impianti e prodotti, che punti anche alla formazione e valorizzazione dei dipendenti ?
Cosa si sta facendo invece per incentivare la produzione di beni, tutelare il credito alle imprese (anche p. es. solo pagando i sacrosanti debiti dello Stato verso le imprese in termini di tempo normali, e basterebbe una leggina...), impedire alle aziende di andare all'estero, tutelare i prodotti nazionali ecc.? Nulla.
Lo possono fare senza correre troppi rischi perché debbono rendere conto soltanto ai loro capi, che non sono i lavoratori, il popolo italiano o i suoi rappresentati. I veri capi risiedono altrove, a Bruxelles, Francoforte, Londra, New York.
Chi si ricorda la lettera della BCE, inviata da Trichet e Draghi all’allora esecutivo Berlusconi e contenente le misure richieste all’Italia per “salvare l’euro”, per “ridiventare competitiva”?
In quella letterina era riassunto il programma dei governi Renzi-Letta-Monti- Napolitano: il primo gruppo di misure da imporre all’Italia riguardava la Crescita neocapitalistica, per innescare la quale si richiedeva, oltre alle famigerate liberalizzazioni, di “distruggere il contratto collettivo nazionale di lavoro (e con esso le garanzie residue per i lavoratori stabili) privilegiando i livelli di contrattazione in cui il lavoratore è più debole ed esposto ad ogni sorta di ricatto, e imporre la libertà di licenziamento indiscriminato per flessibilizzare definitivamente il fattore-lavoro.”
- rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire la prestazione lavorativa/insubordinazione
- rifiuto a riprendere il lavoro dopo visita medica che ha constatato l'insussistenza di una malattia
- lavoro prestato a favore di terzi durante il periodo di malattia, se tale attività pregiudica la pronta guarigione e il ritorno al lavoro
- sottrazione di beni aziendali nell'esercizio delle proprie mansioni (specie se fiduciarie)
- condotta extralavorativa penalmente rilevante ed idonea a far venir meno il vincolo fiduciario (es. rapina commessa da dipendente bancario)
- l'abbandono ingiustificato del posto di lavoro minacce, percosse,
- reiterate violazioni del codice disciplinare di gravità tale da condurre al licenziamento
malattia (superamento del periodo di comporto ).
- la chiusura dell'attività produttiva
- la soppressione del posto di lavoro
- introduzione di nuovi macchinari che necessitano di minori interventi umani
- affidamento di servizi ad imprese esterne
Sono pochi? Non credo. C'è praticamente qualsiasi cosa. Con la modifica Fornero poi, le aziende non sono più obbligate, in caso di torto, a reintegrare il lavoratore, basta pagare una penale.
Credo che la situazione sia già abbastanza sbilanciata a favore delle imprese, oltre al fatto che con la crisi il posto di lavoro è diventato un bene preziosissimo, e il datore di lavoro -consapevole della cosa- ne approfitta in tutti i modi, obbligando a qualsiasi compromesso il dipendente bisognoso...
Che dire ancora? Chi ha orecchie per intendere (e parlo di quali interessi persegue il nostro Governo), intenda.
____________________________________________________
____________________________________________________
In questo blog sullo stesso argomento:
Il falso problema "Articolo 18" e il vero problema del fumo negli occhi
LICENZIARE GLI ITALIANI
___________________________________________________
art.18, Renzi, sindacati di Andrea Fumagalli , Cristina Morini
Il dibattito sull’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è già superato nei fatti. La discussione in corso è puramente ideologica, strumentale per entrambe le parti in causa cioè governo da un lato e sindacati tradizionali (specie la Cgil) dall’altro
__________________________________________________
___________________________________________________
Perché Renzi & C. insistono sull’abolizione dell’art. 18
L’art. 18 della legge del 20 maggio 1970 (denominata Statuto dei Diritti dei Lavoratori), recita: “il Giudice con sentenza dichiara inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ed ordina al datore di lavoro di stabilimento che occupa più di 15 dipendenti di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”. L’art. 18 sostiene anche che il Giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore pari alla retribuzione ed ai contributi assicurativi persi, dal giorno del licenziamento fino al suo reintegro. Il lavoratore ingiustamente licenziato e reintegrato, può richiedere il risarcimento pari a 15 mensilità rinunciando alla reintegrazione sul lavoro.
Ora i Contratti Nazionali di Lavoro, stabiliscono che tutti i lavoratori possono essere licenziati per le seguenti mancanze :
insubordinazione ai superiori; sensibile danneggiamento colposo al materiale dello stabilimento; lavorazione senza permesso di lavori nell’azienda per conto proprio o conto terzi, anche di lieve entità; rissa nello stabilimento; abbandono del posto di lavoro; assenze ingiustificate prolungate oltre 4 giorni; condanna ad un a pena detentiva; recidiva nelle mancanza di più lieve entità; furto in azienda; fumare in azienda dove è espressamente vietato.
Oltre ai licenziamenti per mancanze disciplinari, in base alle leggi esistenti, i datori di lavoro possono licenziare per cause economiche a seguito di ristrutturazione aziendale, per mancanza di lavoro, motivi tecnici o organizzativi, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori.
Come possiamo notare, è evidente che i CCNL e le leggi Italiane non impediscono a nessun datore di lavoro di licenziare se esiste un plausibile motivo ! Quindi perché (Confindustria e Governo) insistono per abolire l’art. 18?
Ma occorre anche precisare che la legge Fornero n. 92 del 2012 , ha già modificato l'art. 18 della legge 20 maggio 1970 (Statuto dei Lavoratori) . Oggi il reintegro pieno con una retribuzione non inferiore alle 5 mensilità, si applica soltanto per i licenziamenti discriminatori, mentre per tutti gli altri licenziamenti illegittimi eseguiti dal datore di lavoro senza un giustificato motivo, il Giudice può disporre il reintegro del lavoratore ed il pagamento fino a 12 mensilità solo in caso di inconsistenza del fatto contestato, mentre per tutti gli altri casi, anche se il giudice riscontra l'insussistenza di giusta causa, può condannare il datore di lavoro solamente al pagamento di una indennità fino a un massimo di 15 mensilità, senza reintegro del lavoratore nel luogo di lavoro.
Quindi, di cosa stiamo parlando?
Occorre dire con chiarezza che stiamo parlando di abolire totalmente l’art. 18 per dare la possibilità ai datori di lavoro di licenziare il lavoratore/lavoratrice, discriminandoli!
Hanno intenzione di licenziare: il lavoratore che sciopera; la lavoratrice rimasta in stato di gravidanza; quello che non c’è la fa a seguire dei ritmi di lavoro impossibili; quello che si è ammalato; quello che manifesta idee politiche diverse da quelle volute dal datore di lavoro; quello che ha il coraggio di pretendere i dispositivi di sicurezza sugli impianti ed individuali ; quello che non accetta i soprusi del padrone che comanda: "lavora 10 ore al giorno ed accetta l’aumento continuo dei carichi di lavoro o lì c’è il cancello e te ne vai" etc. !
Allora è evidente che quando Renzi e la Confindustria asseriscono che l’economia italiana potrebbe riprendere ed assumere più persone abolendo l’articolo 18 mentono sapendo di mentire!
Quale economia può considerarsi competitiva sui mercati internazionali ? Quella fondata sulla eliminazione dei diritti basilari come lo sciopero, il diritto del lavoro in sicurezza, l’abolizione del diritto a non essere discriminati, l’abolizione del diritto ad avere un lavoro giustamente retribuito? Oppure una competitività fondata su investimenti qualitativi sugli impianti e sui prodotti, che punta anche alla formazione e valorizzazione dei propri dipendenti ?
E’ quindi evidente che la scelta della Confindustria (a partire da Marchionne) e quella del Governo Renzi come già dei governi di Berlusconi e di Monti, è quella di continuare a puntare ad uno sviluppo basso riducendo diritti, salari, pensioni, considerando erroneamente di mettersi così in competizione con Paesi (come la Germania) che, invece, gli investimenti innovativi li realizzano veramente. E’ quindi evidente che la scelta di abolire l’art. 18 ha una componente classista reazionaria, che se dovesse procedere imprimerebbe al nostro Paese un ritorno a un ben triste passato, senza più etica, diritti e democrazia!
Anche chi sostiene che oggi è necessario riequilibrare, togliendo un po’ di diritti a chi ha un lavoro fisso (lavoratore di serie A) per darne di più a chi è precario (lavoratore di serie B) mistifica, mentendo in modo spudorato!
Come è possibile sostenere che i lavoratori che oggi prestano la loro opera con 46 forme di lavoro precario, possano ottenere un qualche miglioramento solo se contemporaneamente danno la possibilità ai datori di lavoro di essere licenziati sempre (abolendo l’art. 18), in modo discriminatorio e senza alcun valido motivo?
Umberto Franchi - Lucca
(18 settembre 2014)
MILANO - La riforma Fornero, al Capo III, si è occupata di "Disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore". Con gli articoli 13 e 14, ha modificato le norme relative ai licenziamenti individuali. Si tratta proprio della fattispecie tutelata dall'articolo 18 della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori.
L'articolo 18 tutela in via speciale i licenziamenti illegittimi effettuati:
- in una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo avente più di 15 dipendenti;
- in una circoscrizione comunale dove il datore abbia complessivamente più di 15 dipendenti;
- qualora il numero dei lavoratori subordinati (del datore) sia superiore a 60;
- in base a ragioni discriminatorie (relative al sesso o alla sfera politica, sindacale, religiosa, razziale e linguistica).
(Per le imprese agricole il limite dei primi due punti è ridotto da 16 a 6).
Per illegittimità di un licenziamento, lo Statuto dei Lavoratori richiama la mancanza di giusta causao giustificato motivo (cioè una causa che "non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto" o un motivo che sia "un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del dipendente" o legati a "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di essa").
La tutela speciale determinata dall'articolo 18 consentiva al dipendente licenziato illegittimamente, in sintesi, diessere reintegrato nel posto di lavoro o, su sua opzione, ad un'indennità sostituiva pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto, fermo restando, in entrambi i casi, il diritto al risarcimento del danno (e cioè al "recuperare" gli stipendi persi durante il periodo di licenziamento illegittimo o comunque non meno di 5 mensilità).
Con la riforma Fornero, sono state introdotte modifiche sia nella procedura che "precede" il licenziamento, sia nella giustificazione dello stesso. Ecco le principali novità introdotte:
Procedura
- Si prevede che la comunicazione del licenziamento contenga la specificazione dei motivi (mentre la norma precedente prevedeva che il lavoratore potesse richiederla).
- Il ricorso giudiziale, successivo all'impugnazione, può esser presentato entro 180 giorni (e non più 270).
- Si introduce una procedura preventiva con il tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del Lavoro. In sede di conciliazione, il giudice valuta il comportamento delle parti per determinare il risarcimento e l'eventuale accollo delle spese.
Licenziamento discriminatorio
Quando il licenziamento è discriminatorio, oppure nullo per la violazione di norme sostanziali (come il licenziamento cosiddetto "in concomitanza con il matrimonio" o il licenziamento in violazione delle specifiche norme a tutela della maternità e della paternità) o ancora per violazione del requisito della forma scritta, si applicano le disposizioni precedenti alla riforma. In questo caso, dunque, si parla ditutela reale piena, che significa reintegra del dipendente e risarcimento del danno per il periodo che va dal licenziamento all'effettivo ritorno sul posto di lavoro. La riforma Fornero amplia questa tutela perché viene meno il limite dei 15 dipendenti o delle dimensioni aziendali, estendendola pure ai dirigenti.
Licenziamento disciplinare
Il licenziamento disciplinare resta definito, prima e dopo la riforma, per la sua giusta causa (rottura del rapporto di fiducia) o giustificato motivo soggettivo (condotte che impossibilitano la prosecuzione del rapporto). Quando il giudice verificasse l'insussistenza di tali motivi, o quando il fatto rientrasse in condotte punibili con sanzioni diverse dal licenziamento, il licenziamento sarebbe illegittimo e ne deriverebbe la reintegra del lavoratore. Questa è accompagnata da un risarcimento inferiore (massimo 12 mensilità) che viene detto tutela reale attenuata. La novità sul punto riguarda l'obbligo, qualora il fatto sussista ma si verifichi un licenziamento illegittimo, per il giudice di condannare il datore di lavoro al solo pagamento di un'indennità senza reintegra: si ha solamente una tutela indennitaria.
Licenziamento economico
Per i casi di illegittimità per mancanza del giustificato motivo oggettivo, cioè quando le ragioni dipendono non dal comportamento del lavoratore ma dalla situazione economica o organizzativa dell'azienda (di fatto si mascherano con ragioni economiche altre motivazioni), non si prevede più la reintegrazione, ma solo il risarcimento, che è determinato come nel caso del licenziamento disciplinare. Tuttavia, il giudice, nel caso in cui accerti la "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo, può applicare la tutela speciale dellareintegrazione. In tale ipotesi, la tutela si applica secondo le norme usate per i licenziamenti disciplinari.
Il rito Fornero
Al di là del merito dell'articolo 18, che guadagna solitamente la scena per la rilevanza ideologica che lo accompagna, i professionisti del diritto del lavoro puntano il dito sulla complicazione delle procedure dettata dall'introduzione del "rito Fornero", rito speciale che caratterizza i licenziamenti disciplinati dalla nuova impostazione dell'articolo 18 e di difficile conciliazione rispetto al rito del lavoro e ai procedimenti d'urgenza. La giurisprudenza si è divisa, con i diversi Tribunali (e talvolta le stesse Corti al loro interno), ad agire in maniera differente.
____________________________________________________
06/10/2014
Costruire il lavoro "usa e getta" serve ad abbassare i salari e a comprimere i diritti dei singoli e quelli collettivi, accentuando sfruttamento e impoverimento
La questione dell’abrogazione o mantenimento dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori è più che mai al centro della scena politica e ed è quindi davvero opportuno dedicarle tre sintetiche riflessioni su punti di fondo.
La prima riflessione riguarda le contraddittorie argomentazioni che si sentono da parte datoriale e governativa: da una parte si minimizza il problema asserendo che riguarda una piccola minoranza di lavoratori, visto che le sentenze di reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell’art.18 sono appena 3.000 all’anno, ma dall’altra si afferma che è invece questione centrale e vitale, perché senza abrogazione dell’art.18 non si avrà ripresa né produttiva né occupazionale.
Il vero è — rispondiamo — che l’efficacia e la funzione vera dell’art. 18 è quella di prevenire i licenziamenti arbitrari: proprio perché essi possono essere annullati, i datori di lavoro devono essere prudenti e giusti nei loro comportamenti.
Quelle 3.000 sentenze evitano — per dirla in sintesi — altri 30.000 licenziamenti arbitrari o più. L’art.18 è, e resta, una fondamentale norma antiricatto, che ha dato dignità al lavoratore proprio perché lo libera dal ricatto del licenziamento di rappresaglia, più o meno mascherato.
Quanto poi all’affermazione che l’art.18 costituirebbe un’ingiustizia verso quella metà circa dei lavoratori che non ne fruiscono, perché lavorano in imprese con meno di 16 dipendenti è, più ancora che contraddittoria, paradossale: se solo la metà di una popolazione ha il pane, il problema è di darlo a tutti, non di toglierlo a chi ce l’ha.
La seconda riflessione riguarda l’andamento del mercato del lavoro e dell’occupazione: dice la Confindustria nonché Renzi ed i suoi accoliti che una volta che avessero le mani libere di licenziare a loro arbitrio, i datori, potendo «spadroneggiare», assumerebbero volentieri, e che i lavoratori subirebbero magari una temporanea ingiustizia, ma sarebbero poi compensati da un sistema di flexsecurity che troverebbe loro altro idoneo lavoro, garantendo, nel frattempo, il loro reddito.
Si tratta di due clamorose bugie: le imprese assumono se lo richiede la domanda di beni e servizi e non per altri motivi, come è storicamente dimostrato, mentre la flexsecurity è un imbroglio e una falsa promessa in tutta Europa, ed in particolare in Italia perché quando la disoccupazione strutturale supera il 10% reperire altro lavoro è difficilissimo, e le finanze pubbliche non possono corrispondere indennizzi se non miseri, e per poco tempo: dal 2016, ad esempio, sarà abrogata la indennità di mobilità triennale, e resterà solo la cosiddetta Aspi, di breve durata e con importi decrescenti.
La terza riflessione è la più importante: questa smania di abrogare l’art.18 è solo un’antica sfida di potere da parte datoriale o rientra in un ben più complesso programma di «riassetto» socio-economico?
Tutto dimostra ormai che è quest’ultima la risposta esatta perchè la precarizzazione totale dei rapporti di lavoro, che si raggiunge con i contratti a termine «acausali» ma per il resto, (e cioè, per quella percentuale superiore al 20% consentita ai contratti a termine), anche proprio con contratti a tempo indeterminato non soggetti a reintegra in caso di licenziamento arbitrario, è la condizione prima di un esasperato sfruttamento del lavoro che sta raggiungendo rapidamente dimensioni mai sospettate.
Con il lavoro «usa e getta», espletato comunque sotto ricatto e senza nessuna certezza del futuro, ben si potrà giungere, invero, anche a una drastica diminuzione dei salari sino alla soglia della sopravvivenza.
Il futuro che si prospetta è purtroppo quello di un lavoro non soltanto privo di dignità ma anche sottopagato perché i lavoratori precari e ricattati che diventeranno la normalità non potranno più presentare rivendicazioni collettive e quindi, una volta caduti di fatto i contratti nazionali, lo standard retributivo sarà quello del salario minimo garantito, che non per nulla il governo Renzi si propone di introdurre: già si conosce il livello di quel salario, si tratterà di non più di 6 € l’ora al netto del prelievo fiscale e contributivo, il che significa non più di 800 — 900 euro al mese.
Il nostro è già un paese in cui il 10% della popolazione possiede addirittura il 50% della ricchezza, e per converso il 50% della popolazione deve accontentarsi di dividere un misero 10% della ricchezza stessa, ma questo non basta ancora ai fautori del neoliberismo e di tutte le altre cosiddette «libertà economiche», tra cui quella di licenziare arbitrariamente. Non è soltanto un’antica aspirazione di potere delle classi dominanti, ma è anche la condizione di un ancor più accentuato sfruttamento e impoverimento delle grandi masse.
Possiamo solo prepararci ancora una volta a una grande battaglia a difesa della dignità del lavoro.
(tratto da il manifesto, 27 settembre 2014)
In questo blog sullo stesso argomento:
LICENZIARE GLI ITALIANI
___________________________________________________
26/09/2014
Il dibattito sull’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è già superato nei fatti. La discussione in corso è puramente ideologica, strumentale per entrambe le parti in causa cioè governo da un lato e sindacati tradizionali (specie la Cgil) dall’altro
Il dibattito sull’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è già superato nei fatti. La discussione in corso è puramente ideologica, strumentale per entrambe le parti in causa cioè governo da un lato e sindacati tradizionali (specie la Cgil) dall’altro
Il governo accusa, ideologicamente, i sindacati di essere ideologici e di non occuparsi delle persone, di essersi sempre occupati solo degli occupati e non dei disoccupati, dei (supposti) garantiti e non dei precari (surreale: potremmo dargli torto?). La Cgil risponde, su un piano altrettanto ideologico, che depotenziare ulteriormente l’art. 18 significa attaccare direttamente i diritti dei lavoratori, così come fece la Thatcher in Inghilterra alla fine degli anni Settanta, oltre 40 anni fa (in un contesto di valorizzazione e organizzazione del lavoro completamente diversi, tocca ricordare).
Il giovane Renzi riveste così i panni dell’innovatore o, meglio, del “rottamatore sociale”, schiacciando la palla in rete, puntando sul fatto che la maggioranza dei precari non potrebbe certo disconfermarlo (“dove eravate, o sindacati?”). La Cgil e la Fiom, punte sul vivo, si offendono e si ergono a paladine dei lavoratori, riproponendo uno scontro sociale di stampo tradizionale (almeno sulla carta) che poco ha a che fare con l’attuale composizione del lavoro.
Per meglio comprendere la questione, è utile ricordare brevemente, in successione temporale, i fatti e le modifiche legislative sul tema. La memoria non ci fa difetto e i due contendenti, Renzi e Cgil, dovrebbero smetterla di alzare questa polvere, entrambi convinti che il pubblico di iloti che hanno generato non sia in grado di capire che tali schermaglie servono solo a sostenersi reciprocamente, come accade a volte agli ubriachi.
1. Con la riforma Fornero viene di fatto liberalizzato il licenziamento individuale senza obbligo di reintegro (sepoltura dell’art. 18, già in stato comatoso). Basta infatti la giustificazione economica (che diventa “giusta causa”, o meglio “giustificato motivo oggettivo”) perché partano le lettere di licenziamento compensate da un minimo di preavviso e da un indennizzo da 12 a 24 mensilità, a seconda dell’anzianità. Questo percorso era prima consentito solo per i licenziamenti collettivi, art. 223/1991, e doveva essere confermato dalla dichiarazione di uno “stato di crisi” dell’azienda. Oggi non solo si confà al singolo ma la prova dell’eventuale illegittimità del licenziamento per discriminazione diventa a carico del lavoratore. Solo nel caso in cui venga effettivamente comprovata, il giudice può disporre il reintegro o il pagamento dell’indennità. l’automaticità del reintegro è già, con ciò, parzialmente compromessa.
2. Con la legge 78 approvata in via definitiva lo scorso 16 maggio, nota come legge Poletti (o Job Act, atto I) si sancisce la totale liberalizzazione del contratto a termine rendendolo a-causale. (http://quaderni.sanprecario.info/2014/07/job-act-dal-diritto-del-lavoro-al-lavoro-senza-diritti-di-giovanni-giovannelli/). Viene con ciò fittiziamente posto un limite massimo ai rinnovi possibili (cinque), ma poiché i rinnovi non sono applicabili alla persona ma alla mansione, basta modificare quest’ultima per condannare una persona al lavoro intermittente a vita. La precarietà è stata così completamente istituzionalizzata.
3. Con il testo deliberato dalla Commissione Lavoro del Senato (Job Act, atto II) si istituisce il contratto da lavoro dipendente a tutele crescenti, in relazione all'anzianità di servizio. Si tratta di un particolare “contratto a tempo indeterminato”che dà la possibilità al datore di lavoro di interrompere il rapporto in qualunque momento e senza motivazione nei primi tre anni.In pratica, in questi primi tre anni, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica. Insomma, un fiore e una prece speranzosa dopo la già avvenuta sepoltura della cara norma che fu. Occorre notare che questo aspetto dei tre anni di prova non è al centro del dibattito in corso. No, il corno della discordia è se applicare l’art. 18 (già modello Fornero) nel periodo successivo quando il dipendente viene eventualmente assunto a tempo indeterminato.
Inoltre, poiché nel testo non si dice se tale tipo di contratto andrà a sostituire i contratti in essere, esso si aggiunge alla normativa già esistente, come dichiarato con soddisfazione da Sacconi e Ichino. Si pone allora l’ovvia domanda: se già si può assumere (nel caso si voglia assumere) un lavoratore o una lavoratrice con un contratto a termine senza alcuna giustificazione, perché mai un datore di lavoratore sarebbe incentivato a utilizzare questo nuovo contratto “a tutele crescenti”? Ebbene, potrebbe essere disposto a farlo nel caso in cui avesse estrema necessità delle competenze e della professionalità del lavoratore/trice. Ma grazie alla “tutela crescente”, invece, potrà sottoporre a un lungo periodo di prova, lungo la bellezza di tre anni, anche coloro che hanno questi requisiti. Si tratterebbe quindi di un contratto di lavorio di serie B, come evidenziano anche Boeri e Garibaldo (http://www.lavoce.info/quali-tutele-quanto-crescenti/). Il capolavoro è compiuto, il futuro incerto.
Se guardiamo l’insieme dei provvedimenti che compongono il Job Act (atto I e atto II), crediamo che l’obiettivo sia di ridurre il mercato del lavoro italiano in tre segmenti principali, in grado di procedere ad una razionalizzazione della rapporto di lavoro precario, che ne consenta la strutturalità e la generalizzazione, in una condizione di ricatto (e sfruttamento) continuo:
a. si punta a fare del CTD il contratto standard per tutti/e, dai 30 anni all’età della pensione. Tale contratto, basato su un rapporto individuale, ricattabile e subordinato (che prevede una tutela sindacale funzionale alle esigenze delle imprese, quando c’è) deve diventare il contratto di riferimento, in grado di sostituire per obsolescenza il contratto a tempo indeterminato. A tale contratto si aggiungerebbe il contratto a tutele crescenti (presentato a mo’ di pannicello caldo), che verrebbe applicato soprattutto a coloro che presentano livelli di professionalità medio-alti.
b. per i giovani con minor qualifica, l’ingresso nel mercato del lavoro diventa il contratto di apprendistato, ora trasformato, in seguito alle “innovazioni” introdotte dal Jobs Act (atto I), in semplice contratto di inserimento a bassi salari (- 30%) e minor oneri per l’impresa. Il target di riferimento sono essenzialmente i giovani al di sotto dei 29 anni che non hanno titoli universitari (trimestrale e magistrale).
c. per i giovani under 29 anni che invece hanno qualifica medio-alta (laurea o master di I e II livello) entra in azione invece il piano “garanzia giovani”, che, utilizzando i fondi europei del progetto 2020 (1,5 miliardi di euro stanziati per l’Italia, in vigore dal 1 maggio di quest’anno, su base regionale), intende definire una piattaforma di incontro tra domanda e offerta di lavoro, con intermediazione di società pubblico-private garantite a livello regionale, in cui si delineano tre percorsi di inserimento al lavoro in attesa di poter essere poi assunti con CTD o, ora, con il contratto a tutele crescenti: servizio civile (semi gratuito), stage (semi gratuito), lavoro volontario (gratuito). Il modello è quello delineato dal contratto del 23 luglio 2013 per l’Expo di Milano, che ora viene esteso a livello nazionale. L’obiettivo è aumentare – come si dice nel linguaggio europeo – l’occupabilità (employability), ovvero definire occupati a costo zero circa 600.000 giovani (se tutto funziona!), così da toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione giovanile e consentire al governo Renzi di mostrare che nel 2015 il tasso di disoccupazione è miracolosamente diminuito di 10-15 punti!
Ne consegue che questa ristrutturazione del mercato del lavoro sancisce la completa irreversibilità della condizione precaria, confermandone la natura esistenziale, strutturale e generalizzata.
Alla luce di queste considerazioni, discutere adesso del mantenimento dell’art. 18 dopo la stabilizzazione del contratto di lavoro, passati i “primi tre anni di prova”, appare quantomeno paradossale.
Renzi e il governo, con il supporto di Napolitano (e ora di Marchionne), si fanno garanti della continuità delle politiche di austerity, rispondono agli interessi del grande capitale finanziario e della grande industria. I sindacati alzano a parole le barricate, dichiarando, nel desiderio di essere credibili (e qualcuno ancora ci casca!), che adesso chiuderanno le porte della stalla, ben consapevoli, però, che tutti gli animali son scappati da molto tempo.
Ricordiamo infine che questi provvedimenti dovranno essere accompagnati – secondo le promesse fatte – anche da una riforma del sussidio di disoccupazione in forma più allargata dell’attuale, in grado di assorbire l’Aspi e il mini-Aspi della riforma Fornero e la cassa integrazione in deroga. La cassa integrazione ordinaria e straordinaria non viene toccata, perché fa troppo comodo alle imprese (che scaricano così sulla socialità i costi privati delle ristrutturazioni) e ai sindacati confederali (che grazie alla gestione della Cassa Integrazione giustificano la loro ragion d’essere).Tale sussidio di disoccupazione è, sul modello del workfare anglosassone, fortemente condizionato. Non stupirebbe se nella sua proposizione si proponesse di rendere obbligo un certo numero di ore settimanali volontarie per poterne avere diritto (come è stato discusso recentemente in Inghilterra).
Last but not least, crediamo che la tempistica tradizionale dei due tempi (prima la deregulation del mercato del lavoro, poi, in un secondo tempo dal futuro incerto, la promessa di maggior sicurezza sociale rispetto a quella oggi operante in modo del tutto iniquo e distorto) dovrebbe essere rovesciata, se è vero (come viene millantato) che tali riforme hanno come obiettivo un minimo di crescita economica e una riduzione dell’elevata disoccupazione
È infatti di gran lunga prioritaria la necessità di intervenire non su un mercato del lavoro già ampiamente precario (dove già oggi solo il 16% dei nuovi contratti può godere dell’art. 18 e meno di un giovane su 10 viene assunto con contratto stabile) ma sull’adeguamento del sistema di welfare a quelli che sono oggi i processi di valorizzazione e accumulazione. Un sistema di welfare che dovrebbe tendere verso forme di Welfare del Comune (Commonfare), le cui linee guida sono:
• Un salario minimo europeo;
• Un reddito minimo, a partire da chi è al di sotto della soglia povertà relativa, in grado poi di estendersi a una platea crescente di possibili beneficiari, all’aumentare della soglia minima di riferimento: un reddito individuale, dato ai residenti e non solo ai “cittadini”, il più possibile incondizionato e finanziato dalla fiscalità generale (e non dai contributi sociali);
• L’accesso libero gratuito ai beni comuni materiali (acqua, ambiente, casa, trasporti) gestiti in maniera pubblica e collettiva e al “comune” (istruzione, sanità, socialità, mezzi monetari), in forme regolate in modo autonomo o con la mediazione pubblica.
Un Welfare del Comune che, tramite diversi strumenti e dispositivi, sia in grado di favorire:
a. dal lato dell’offerta, una flessibilità positiva del lavoro con un maggior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete che sono alla base della crescita della produttività e le cui carenze sono la principale causa dell’attuale stagnazione;
b. dal lato della domanda, un processo di riappropriazione di quel valore che la nostra vita produce e che oggi viene espropriato da poche oligarchie, con l’effetto di deprimere i redditi e la domanda, in grado anche di aprire non solo spazi di libertà e autodeterminazione ma anche possibili scenari produttivi alternativi, finalizzati alla produzione dell’uomo per l’uomo.
www.sbilanciamoci.info.
Articolo 18: Renzi “obbedisce” 22 settembre 2014
La domanda del giorno è più inquietante di quanto non appaia dai canovacci della farsa nazionale. Perché Renzi che fino a due settimane fa in cambio dell’osceno job act era disposto a lasciare i rimasugli dell’articolo 18 oggi rischia la crisi nel partito pur di liberarsi di qualcosa ridotto a puro simulacro? Perché combattere una guerra ideologica di cui nessuno sentiva il bisogno e che rischia di svegliare il can che dorme nel Pd? La risposta non va trovata in Renzi perchè il sacco del premier è pieno d’aria come una cornamusa, ma altrove, nelle pressioni e negli ordini che riceve, in chi tira i fili del guappo.
E qui ci troviamo in un terreno più volte esplorato, ma scivoloso e ambiguo: che l’eliminazione delle tutele non abbia un senso in termini economici, anzi sia un elemento negativo è stato detto a chiare lettere poco più di una settimana fa al G20: l’International labour office, in collaborazione con Ocse, Fmi e Banca Mondiale, dunque con il troikume globale, ha messo a punto una ricerca sul mercato del lavoro il cui risultato può essere riassunto in poche righe: “Più posti di lavoro, pagati meglio, contribuirebbero all’aumento dei redditi delle famiglie, che a loro volta rafforzano la domanda di consumi. Se le aziende vedono che la domanda è in aumento, queste decideranno di fare investimenti creando in questo modo un circolo virtuoso”. Le deregolamentazioni sul lavoro che abbassano i salari sono evidentemente veleno per questo obiettivo e seguono i risultati delle ricerche economiche condotte in questi anni che dimostrano l’esatto contrario della tesi dei reazionari da bar italiani: più aumentano le tutele, più diminuisce la disoccupazione e non viceversa.
In virtù appunto di un circolo virtuoso e non vizioso per scorgere il quale occorre però pensiero laterale, visione del futuro, intelligenza, tutte cose che mancano paurosamente alla classe dirigente italiana. A questo punto però c’è da chiedersi chi suggerisce a Renzi di combattere una battaglia puramente ideologica che persino gli organismi di riferimento internazionali paiono aver abbandonato di fronte alle evidenze della realtà . La mia risposta potrebbe sembrare paradossale: gli stessi centri di potere che poi elaborano documenti in cui vengono fatti a pezzi i loro stessi suggerimenti. E’ strano, ma perfettamente razionale perché lo scopo non è quello ufficiale di favorire la crescita e l’occupazione nelle condizioni date, ma di proteggere i profitti e ridurre il lavoro a merce inflazionata e senza protezioni. Non è nemmeno la prima volta che una tale contraddizione si evidenzia: da due anni l’Fmi ha riconosciuto che la diminuzione della spesa pubblica si traduce in un calo molto più marcato del Pil e tuttavia l’Fmi come membro della troika impone dovunque il taglio della spesa pubblica.
La Costituzione italiana dice la Repubblica è fondata sul lavoro ed è forse nel mondo l’espressione più diretta di una dinamica storica evidente: l’idea di stato e di democrazia che si è faticosamente, drammaticamente affermata in due secoli ha al suo centro proprio il lavoro e la cittadinanza che sono poi la fonte delle tutele e della solidarietà. Certo è un processo realizzatosi solo in minima parte, ma non è questo il punto: il fatto è che la sola idea che esistano uno stato e dei diritti è intollerabile per il capitalismo finanziario.
L’obiettivo principale non è dunque ti carattere specificamente economico, ma politico: lacerare il tessuto sociale dal quale prende vita la democrazia. E senza dubbio un lavoro che non goda di nessun diritto, nemmeno quello teorico della giusta causa, dove il dipendente può essere “comprato” per poco o nulla e non goda di fatto di alcun diritto, è esattamente quello a cui si mira. Tutto il resto le svendite, la trasformazione dei parlamenti in assemblee di prezzolati al soldo delle lobby, la legislazione proprietaria, vengono di conseguenza. Per questo anche la giubilazione di un principio simbolico acquista un significato che va bene al di là dei suoi effetti pratici, è come prendere la costituzione e stracciarla, come del resto aveva apertamente suggerito J.P Morgan.
Qualcuno avrà telefonato a Renzi dicendo di smetterla con le sue logiche politica di provincia e di non lasciarsi sfuggire un’occasione così golosa, altrimenti può dare l’addio alla poltrona in cui immeritatamente siede. E naturalmente la risposta è arrivata: Obbedisco.
E qui ci troviamo in un terreno più volte esplorato, ma scivoloso e ambiguo: che l’eliminazione delle tutele non abbia un senso in termini economici, anzi sia un elemento negativo è stato detto a chiare lettere poco più di una settimana fa al G20: l’International labour office, in collaborazione con Ocse, Fmi e Banca Mondiale, dunque con il troikume globale, ha messo a punto una ricerca sul mercato del lavoro il cui risultato può essere riassunto in poche righe: “Più posti di lavoro, pagati meglio, contribuirebbero all’aumento dei redditi delle famiglie, che a loro volta rafforzano la domanda di consumi. Se le aziende vedono che la domanda è in aumento, queste decideranno di fare investimenti creando in questo modo un circolo virtuoso”. Le deregolamentazioni sul lavoro che abbassano i salari sono evidentemente veleno per questo obiettivo e seguono i risultati delle ricerche economiche condotte in questi anni che dimostrano l’esatto contrario della tesi dei reazionari da bar italiani: più aumentano le tutele, più diminuisce la disoccupazione e non viceversa.
In virtù appunto di un circolo virtuoso e non vizioso per scorgere il quale occorre però pensiero laterale, visione del futuro, intelligenza, tutte cose che mancano paurosamente alla classe dirigente italiana. A questo punto però c’è da chiedersi chi suggerisce a Renzi di combattere una battaglia puramente ideologica che persino gli organismi di riferimento internazionali paiono aver abbandonato di fronte alle evidenze della realtà . La mia risposta potrebbe sembrare paradossale: gli stessi centri di potere che poi elaborano documenti in cui vengono fatti a pezzi i loro stessi suggerimenti. E’ strano, ma perfettamente razionale perché lo scopo non è quello ufficiale di favorire la crescita e l’occupazione nelle condizioni date, ma di proteggere i profitti e ridurre il lavoro a merce inflazionata e senza protezioni. Non è nemmeno la prima volta che una tale contraddizione si evidenzia: da due anni l’Fmi ha riconosciuto che la diminuzione della spesa pubblica si traduce in un calo molto più marcato del Pil e tuttavia l’Fmi come membro della troika impone dovunque il taglio della spesa pubblica.
La Costituzione italiana dice la Repubblica è fondata sul lavoro ed è forse nel mondo l’espressione più diretta di una dinamica storica evidente: l’idea di stato e di democrazia che si è faticosamente, drammaticamente affermata in due secoli ha al suo centro proprio il lavoro e la cittadinanza che sono poi la fonte delle tutele e della solidarietà. Certo è un processo realizzatosi solo in minima parte, ma non è questo il punto: il fatto è che la sola idea che esistano uno stato e dei diritti è intollerabile per il capitalismo finanziario.
L’obiettivo principale non è dunque ti carattere specificamente economico, ma politico: lacerare il tessuto sociale dal quale prende vita la democrazia. E senza dubbio un lavoro che non goda di nessun diritto, nemmeno quello teorico della giusta causa, dove il dipendente può essere “comprato” per poco o nulla e non goda di fatto di alcun diritto, è esattamente quello a cui si mira. Tutto il resto le svendite, la trasformazione dei parlamenti in assemblee di prezzolati al soldo delle lobby, la legislazione proprietaria, vengono di conseguenza. Per questo anche la giubilazione di un principio simbolico acquista un significato che va bene al di là dei suoi effetti pratici, è come prendere la costituzione e stracciarla, come del resto aveva apertamente suggerito J.P Morgan.
Qualcuno avrà telefonato a Renzi dicendo di smetterla con le sue logiche politica di provincia e di non lasciarsi sfuggire un’occasione così golosa, altrimenti può dare l’addio alla poltrona in cui immeritatamente siede. E naturalmente la risposta è arrivata: Obbedisco.
___________________________________________________
Perché Renzi & C. insistono sull’abolizione dell’art. 18
L’art. 18 della legge del 20 maggio 1970 (denominata Statuto dei Diritti dei Lavoratori), recita: “il Giudice con sentenza dichiara inefficace il licenziamento o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ed ordina al datore di lavoro di stabilimento che occupa più di 15 dipendenti di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”. L’art. 18 sostiene anche che il Giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore pari alla retribuzione ed ai contributi assicurativi persi, dal giorno del licenziamento fino al suo reintegro. Il lavoratore ingiustamente licenziato e reintegrato, può richiedere il risarcimento pari a 15 mensilità rinunciando alla reintegrazione sul lavoro.
Ora i Contratti Nazionali di Lavoro, stabiliscono che tutti i lavoratori possono essere licenziati per le seguenti mancanze :
insubordinazione ai superiori; sensibile danneggiamento colposo al materiale dello stabilimento; lavorazione senza permesso di lavori nell’azienda per conto proprio o conto terzi, anche di lieve entità; rissa nello stabilimento; abbandono del posto di lavoro; assenze ingiustificate prolungate oltre 4 giorni; condanna ad un a pena detentiva; recidiva nelle mancanza di più lieve entità; furto in azienda; fumare in azienda dove è espressamente vietato.
Oltre ai licenziamenti per mancanze disciplinari, in base alle leggi esistenti, i datori di lavoro possono licenziare per cause economiche a seguito di ristrutturazione aziendale, per mancanza di lavoro, motivi tecnici o organizzativi, riducendo il personale e mettendo in mobilità i lavoratori.
Come possiamo notare, è evidente che i CCNL e le leggi Italiane non impediscono a nessun datore di lavoro di licenziare se esiste un plausibile motivo ! Quindi perché (Confindustria e Governo) insistono per abolire l’art. 18?
Ma occorre anche precisare che la legge Fornero n. 92 del 2012 , ha già modificato l'art. 18 della legge 20 maggio 1970 (Statuto dei Lavoratori) . Oggi il reintegro pieno con una retribuzione non inferiore alle 5 mensilità, si applica soltanto per i licenziamenti discriminatori, mentre per tutti gli altri licenziamenti illegittimi eseguiti dal datore di lavoro senza un giustificato motivo, il Giudice può disporre il reintegro del lavoratore ed il pagamento fino a 12 mensilità solo in caso di inconsistenza del fatto contestato, mentre per tutti gli altri casi, anche se il giudice riscontra l'insussistenza di giusta causa, può condannare il datore di lavoro solamente al pagamento di una indennità fino a un massimo di 15 mensilità, senza reintegro del lavoratore nel luogo di lavoro.
Quindi, di cosa stiamo parlando?
Occorre dire con chiarezza che stiamo parlando di abolire totalmente l’art. 18 per dare la possibilità ai datori di lavoro di licenziare il lavoratore/lavoratrice, discriminandoli!
Hanno intenzione di licenziare: il lavoratore che sciopera; la lavoratrice rimasta in stato di gravidanza; quello che non c’è la fa a seguire dei ritmi di lavoro impossibili; quello che si è ammalato; quello che manifesta idee politiche diverse da quelle volute dal datore di lavoro; quello che ha il coraggio di pretendere i dispositivi di sicurezza sugli impianti ed individuali ; quello che non accetta i soprusi del padrone che comanda: "lavora 10 ore al giorno ed accetta l’aumento continuo dei carichi di lavoro o lì c’è il cancello e te ne vai" etc. !
Allora è evidente che quando Renzi e la Confindustria asseriscono che l’economia italiana potrebbe riprendere ed assumere più persone abolendo l’articolo 18 mentono sapendo di mentire!
Quale economia può considerarsi competitiva sui mercati internazionali ? Quella fondata sulla eliminazione dei diritti basilari come lo sciopero, il diritto del lavoro in sicurezza, l’abolizione del diritto a non essere discriminati, l’abolizione del diritto ad avere un lavoro giustamente retribuito? Oppure una competitività fondata su investimenti qualitativi sugli impianti e sui prodotti, che punta anche alla formazione e valorizzazione dei propri dipendenti ?
E’ quindi evidente che la scelta della Confindustria (a partire da Marchionne) e quella del Governo Renzi come già dei governi di Berlusconi e di Monti, è quella di continuare a puntare ad uno sviluppo basso riducendo diritti, salari, pensioni, considerando erroneamente di mettersi così in competizione con Paesi (come la Germania) che, invece, gli investimenti innovativi li realizzano veramente. E’ quindi evidente che la scelta di abolire l’art. 18 ha una componente classista reazionaria, che se dovesse procedere imprimerebbe al nostro Paese un ritorno a un ben triste passato, senza più etica, diritti e democrazia!
Anche chi sostiene che oggi è necessario riequilibrare, togliendo un po’ di diritti a chi ha un lavoro fisso (lavoratore di serie A) per darne di più a chi è precario (lavoratore di serie B) mistifica, mentendo in modo spudorato!
Come è possibile sostenere che i lavoratori che oggi prestano la loro opera con 46 forme di lavoro precario, possano ottenere un qualche miglioramento solo se contemporaneamente danno la possibilità ai datori di lavoro di essere licenziati sempre (abolendo l’art. 18), in modo discriminatorio e senza alcun valido motivo?
Umberto Franchi - Lucca
(18 settembre 2014)
________________________________________________________
Approfondimento:
Scheda. L'articolo 18 dopo la riforma Fornero
di RAFFAELE RICCIARDIMILANO - La riforma Fornero, al Capo III, si è occupata di "Disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore". Con gli articoli 13 e 14, ha modificato le norme relative ai licenziamenti individuali. Si tratta proprio della fattispecie tutelata dall'articolo 18 della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori.
L'articolo 18 tutela in via speciale i licenziamenti illegittimi effettuati:
- in una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo avente più di 15 dipendenti;
- in una circoscrizione comunale dove il datore abbia complessivamente più di 15 dipendenti;
- qualora il numero dei lavoratori subordinati (del datore) sia superiore a 60;
- in base a ragioni discriminatorie (relative al sesso o alla sfera politica, sindacale, religiosa, razziale e linguistica).
(Per le imprese agricole il limite dei primi due punti è ridotto da 16 a 6).
Per illegittimità di un licenziamento, lo Statuto dei Lavoratori richiama la mancanza di giusta causao giustificato motivo (cioè una causa che "non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto" o un motivo che sia "un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del dipendente" o legati a "ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare
La tutela speciale determinata dall'articolo 18 consentiva al dipendente licenziato illegittimamente, in sintesi, diessere reintegrato nel posto di lavoro o, su sua opzione, ad un'indennità sostituiva pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto, fermo restando, in entrambi i casi, il diritto al risarcimento del danno (e cioè al "recuperare" gli stipendi persi durante il periodo di licenziamento illegittimo o comunque non meno di 5 mensilità).
Con la riforma Fornero, sono state introdotte modifiche sia nella procedura che "precede" il licenziamento, sia nella giustificazione dello stesso. Ecco le principali novità introdotte:
Procedura
- Si prevede che la comunicazione del licenziamento contenga la specificazione dei motivi (mentre la norma precedente prevedeva che il lavoratore potesse richiederla).
- Il ricorso giudiziale, successivo all'impugnazione, può esser presentato entro 180 giorni (e non più 270).
- Si introduce una procedura preventiva con il tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del Lavoro. In sede di conciliazione, il giudice valuta il comportamento delle parti per determinare il risarcimento e l'eventuale accollo delle spese.
Licenziamento discriminatorio
Quando il licenziamento è discriminatorio, oppure nullo per la violazione di norme sostanziali (come il licenziamento cosiddetto "in concomitanza con il matrimonio" o il licenziamento in violazione delle specifiche norme a tutela della maternità e della paternità) o ancora per violazione del requisito della forma scritta, si applicano le disposizioni precedenti alla riforma. In questo caso, dunque, si parla ditutela reale piena, che significa reintegra del dipendente e risarcimento del danno per il periodo che va dal licenziamento all'effettivo ritorno sul posto di lavoro. La riforma Fornero amplia questa tutela perché viene meno il limite dei 15 dipendenti o delle dimensioni aziendali, estendendola pure ai dirigenti.
Licenziamento disciplinare
Il licenziamento disciplinare resta definito, prima e dopo la riforma, per la sua giusta causa (rottura del rapporto di fiducia) o giustificato motivo soggettivo (condotte che impossibilitano la prosecuzione del rapporto). Quando il giudice verificasse l'insussistenza di tali motivi, o quando il fatto rientrasse in condotte punibili con sanzioni diverse dal licenziamento, il licenziamento sarebbe illegittimo e ne deriverebbe la reintegra del lavoratore. Questa è accompagnata da un risarcimento inferiore (massimo 12 mensilità) che viene detto tutela reale attenuata. La novità sul punto riguarda l'obbligo, qualora il fatto sussista ma si verifichi un licenziamento illegittimo, per il giudice di condannare il datore di lavoro al solo pagamento di un'indennità senza reintegra: si ha solamente una tutela indennitaria.
Licenziamento economico
Per i casi di illegittimità per mancanza del giustificato motivo oggettivo, cioè quando le ragioni dipendono non dal comportamento del lavoratore ma dalla situazione economica o organizzativa dell'azienda (di fatto si mascherano con ragioni economiche altre motivazioni), non si prevede più la reintegrazione, ma solo il risarcimento, che è determinato come nel caso del licenziamento disciplinare. Tuttavia, il giudice, nel caso in cui accerti la "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo, può applicare la tutela speciale dellareintegrazione. In tale ipotesi, la tutela si applica secondo le norme usate per i licenziamenti disciplinari.
Il rito Fornero
Al di là del merito dell'articolo 18, che guadagna solitamente la scena per la rilevanza ideologica che lo accompagna, i professionisti del diritto del lavoro puntano il dito sulla complicazione delle procedure dettata dall'introduzione del "rito Fornero", rito speciale che caratterizza i licenziamenti disciplinati dalla nuova impostazione dell'articolo 18 e di difficile conciliazione rispetto al rito del lavoro e ai procedimenti d'urgenza. La giurisprudenza si è divisa, con i diversi Tribunali (e talvolta le stesse Corti al loro interno), ad agire in maniera differente.
(16 settembre 2014)
2 commenti:
Personalmente penso che distruggendo l articolo 18 non mi faccia vivere meglio e, non migliori la situazione economica italiana, L`italia e` un paese fermo immobile, non si investe in ricerca sopratutto in quella ambientale che, a mio avviso sarebbe uno sbocco economico notevole, non investiamo nel turismo, abbiamo la storia piu` antica del mondo seppellita sotto macerie burocratiche e ingnoranti, non investiamo in agricoltura, dato il nostro clima potremmo produrre i prodotti agricoli migliori al mondo. Invece cosa facciamo,ci inventiamo tasse e distruggiamo quello che si e` ottenuto con la lotta. Forse un pochino di lusso in meno e maggiore attenzione ci farebbe vivere meglio. Fabio. A
Concordo pienamente. Grazie Fabio del tuo contributo.
Posta un commento