Le ragioni della modifica del Senato (non eliminazione,
attenti!) sono essenzialmente 2, una economica e l’altra relativa al
superamento del bicameralismo che sarebbe alla radice della lentezza legislativa
italiana.
Per quanto riguarda il primo punto, il
costo, in termini reali, poco più di un terzo dei 505 milioni di euro – pari a
circa 160 milioni di euro –costituirebbe l’effettivo risparmio conseguibile con
l’eliminazione del Senato elettivo. Approfondiamo questo tema tecnico in fondo
alla nota.
E per quanto riguarda il secondo punto, e
questo è l’aspetto più eclatante e più noto di tutto il pacchetto, il superamento
del cosiddetto «bicameralismo perfetto» che caratterizzava fino a oggi il
nostro Paese, e con cui si intende un sistema in cui due camere sono investite
delle stesse funzioni politiche, dovrebbe evitare che ogni legge debba essere discussa
e approvata all’interno di entrambe le camere. Così avviene infatti in Italia,
secondo il principio costituzionale che infatti recita che «la funzione
legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70). Una
corrente di pensiero assai diffusa, fatta propria con entusiasmo dal presidente
del consiglio, vuole che tale sistema sia causa dei fenomeni di blocco del
sistema politico, e dunque, nel rozzo linguaggio renziano, debba essere
«rottamato». Tesi non del tutto infondata, questa, e che Renzi non è certo il
primo a sostenere: anche nella storia della sinistra italiana non è mancata
questa posizione, sostenuta in chiave di rinnovamento di una democrazia di
massa (è stata questa la tesi di Ingrao, per esempio, negli anni
Settanta-Ottanta).
È però anche vero che – come ha
osservato di recente Raniero La Valle – la scelta bicamerale ha un forte
radicamento, non casuale, nello spirito della Resistenza che animava i
costituenti, fautori di una «democrazia abbondante» (e per i quali dunque – ha
scritto La Valle - «se c’era stato un Senato del Regno, ora doveva esserci un Senato
della Repubblica, e se quello era una Camera di nominati a vita, questo doveva
essere una Camera di eletti»).
Nella scienza politica, del resto, non
si dà affatto per scontato che il bicameralismo perfetto sia necessariamente
fonte di farraginosità: a fronte di un inevitabile allungamento del processo
legislativo, infatti, esso consente spesso il miglioramento tecnico della
legislazione (naturalmente, al netto del degrado generale del personale
politico, ma questa – come si dice – è un’altra storia), nonché un maggiore
controllo sull’esecutivo [si veda per esempio la voce Bicameralismo della
Dizionario di politica di Bobbio-Matteucci-Pasquino (Utet 1976)].
Ma torniamo al ddl Boschi e alla sua
“riforma”: ebbene, la Camera dei deputati resterà l’unica a votare la fiducia
al governo e a svolgere buona parte dell’attività legislativa. Il Senato però
non scomparirà (non cambierà neppure nome), ma diventerà una sorta di camera
degli enti locali (secondo i detrattori “un dopolavoro per consiglieri
regionali”), eletta ogni sette anni e composta da cento membri, di cui 21
sindaci (uno per regione) e 74 consiglieri regionali, oltre a cinque senatori
di nomina presidenziale (non più a vita, ma della stessa durata del mandato
presidenziale).
Da sottolineare che sia nel caso dei
consiglieri regionali sia nel caso dei sindaci, resta oscura la modalità di
scelta: elezione indiretta (da parte dei Consigli) o elezione da parte del
corpo elettorale? Ciò sarà deciso da una successiva legge ordinaria. (Mentre è
già sicuro – lo ricordiamo a costo di apparire «populisti» – che i nuovi senatori
saranno debitamente coperti da immunità parlamentare…).
Il procedimento legislativo viene,
comunque, profondamente cambiato: la partecipazione paritaria delle due camere
non viene del tutto eliminata, ma sarà limitata ad alcune tipologie di «leggi
bicamerali» (per esempio in materia costituzionale e di ordinamento degli enti
locali). Per tutte le altre leggi il Senato potrà solo proporre modifiche cui
la Camera peraltro potrà decidere di non dare corso (con voto a maggioranza
assoluta nel solo caso di leggi riguardanti il rapporto Stato-Regioni).
Come si vede già da queste brevi note,
non sembra proprio il regno della semplificazione! Verrebbe piuttosto da dire
che stiamo passando dal bicameralismo perfetto a un “bicameralismo confuso”!
Prerogative del governo.
La riforma mostra una lodevole
preoccupazione per l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza, fenomeno
sempre più diffuso negli ultimi decenni. Non deve però sfuggire, nella trama
confusa della riforma, l’introduzione di una norma riguardante la votazione
prioritaria dei disegni di legge dichiarati fondamentali per la realizzazione del
programma di governo: il Governo può su tali leggi chiedere al Parlamento di
pronunciarsi entro 70 giorni, causando, secondo alcuni osservatori come Gaetano
Azzariti, una «compressione dell’autonomia della Camera». C’è da chiedersi,
insomma, se non si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che si dice di
voler far uscire dalla porta.
Superamento delle province e ritorno al
centralismo.
Nel quadro di riscrittura del Titolo V
che si colloca la famosa abolizione delle Province, presentate da una lunga
campagna demagogica come degli inutili carrozzoni mangia-soldi (su questa
retorica delle Province come sentina di tutte le nequizie bisognerà, prima o
poi, che qualche storico scriva qualcosa…).
In teoria, le funzioni attualmente
svolte da questi antichi organi amministrativi (sono un lascito napoleonico, poi
mantenuto dagli stati della Restaurazione), per esempio la manutenzione delle
strade locali, dovrebbero essere riassorbite dai due livelli contigui, quello
inferiore dei Comuni e quello superiore delle Regioni; in pratica, però (e mai
come in questo caso tra teoria e pratica la differenza è importante), non si
capisce bene come saranno redistribuite, chi farà cosa e come, quali conflitti
ci saranno (e sono già cominciati), né dove andranno a finire i dipendenti di
questi enti, mentre l’attesa messianica è rivolta verso le mitizzate «città
metropolitane». In ogni caso, comunque, i cittadini perdono un’istanza
democratica e molto vicina da sempre ai territori e “guadagnano” istituzioni
sostanzialmente non-elettive come le città metropolitane. Non sarebbe bastato –
viene da chiedersi – l’accorpamento delle province esistenti, cominciando con
l’abolizione delle decine di nuove province istituite a partire da fine anni
Novanta (un caso per tutti: il raddoppio in Sardegna!)? O una seria e drastica
opera di riordino di enti e apparati, come di riduzione degli emolumenti?
Conclusioni
Anche da queste poche osservazioni
(abbiamo qui tralasciato diverse modifiche minori, relative, tra l’altro,
all'elezione del Presidente, regole per i referendum e leggi d’iniziativa
popolare), emergono chiari i tratti di una riforma che, oltre a produrre non
poche complicazioni sul terreno politico-istituzionale (tutto all’opposto della
sempre invocata semplificazione), rischia di determinare, combinata con la
nuova legge elettorale dal forte premio di maggioranza, quella torsione
leaderistica e quella occupazione del potere da parte di un solo partito, al
limite di una sola persona, che da più parti viene paventata.
È proprio su questi presupposti che il
fronte del NO alle riforme renziane ha mosso nei mesi scorsi i primi passi,
presentandosi pubblicamente in due iniziative tenutesi nel gennaio scorso a
Roma, sotto gli auspici di grandi personalità del mondo del diritto, come
Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà, Paolo Maddalena, e con il sostegno
politico di ciò che resta della sinistra dentro e fuori il Parlamento (SEL, o
meglio la nuova “Sinistra Italiana”, PRC, PCdI, gruppi e movimenti, come Libertà
e Giustizia, ANPI, ecc.). Uno schieramento di forze vasto, a difesa della
democrazia costituzionale, o meglio sarebbe dire contro la destabilizzazione
costituzionale che questo governo, più attento all’efficacia comunicativa che
al buon funzionamento della democrazia, rischia di produrre.
È una battaglia importante, a cui
crediamo si debba dare il massimo risalto, nella consapevolezza che difendere
il modello di organizzazione politica che i costituenti ci hanno consegnato nel
dopoguerra è il modo migliore per garantirci un futuro democratico e
pluralista. (Toni Muzzioli)
Il risparmio effettivo sul Senato
Il costo complessivo annuale del Senato
è pari a 505 milioni di euro. Cifra questa, risultato peraltro di una sorta di mini-spending
review, che nell’arco dell’ultimo decennio ha fatto calare la spesa di
quasi 90 milioni di euro.
Va poi considerato che, in termini reali, poco più di
un terzo dei 505 milioni di euro – pari a circa 160 milioni di euro –costituirebbe
l’effettivo risparmio conseguibile con l’eliminazione del Senato elettivo.
Le voci di costo che sarebbero
certamente cancellate per sempre sono ascrivibili alle indennità di funzione
dei 315 senatori (80 milioni di euro), alle risorse destinate ai gruppi (21,3
milioni di euro). Nonché ad una serie di esborsi che, aggregati, ammontano a
circa 55-60 euro milioni di euro. I cui principali capitoli di spesa, come
emerge dalla lettura del bilancio, sono rappresentati da: servizi informatici
(8,4 milioni di euro), logistica (5,4 milioni di euro), servizi di spedizione e
trasporto (7,5 milioni di euro), comunicazione istituzionale (6,5 milioni di
euro), cerimoniale (circa 2 milioni di euro) e produzione di studi e documenti
(2,9 milioni di euro).
Un ulteriore elemento di costo non
completamente eliminabile è quello relativo alla manutenzione delle
sedi. La manutenzione ordinaria, che costa ogni anno ben 6,3 milioni di
euro, potrebbe certo subire un lieve ridimensionamento legato al minore
utilizzo degli immobili. Rimarrebbero comunque gli oneri derivanti dalla manutenzione
straordinaria, nonché quelli per il riscaldamento e l’illuminazione, per un
costo prudenziale pari a circa 10 milioni di euro.
L’abolizione del Senato permetterebbe
invece di risparmiare i costi per l’organizzazione dei lavori delle
varie commissioni – di inchiesta, di vigilanza, speciali e consultive
– che pesano sul bilancio dell’ente per circa 1,1 milioni di euro.
Due terzi della spesa totale
rimarrebbero però insopprimibili. Si tratta, ad esempio, degli 82
milioni di euro relativi alle pensioni erogate agli ex senatori. Una
voce di costo, questa, peraltro destinata ad aumentare automaticamente di anno
in anno, in quanto non assoggettabile ad alcuna forma di flessibilità. Si pensi
infatti che dal 2012 al 2013 la spesa pensionistica ha subito un incremento di
4,8 milioni di euro, passando da 77,2 milioni ad appunto 82 milioni. Per i
dipendenti la questione è ancora più rilevante: nel 2012 la voce era pari a
106,85 milioni e nel 2013 è cresciuta fino a 115,2 milioni.
A meno che non si pensi che magicamente
i dipendenti del Senato scompaiano, c’è inoltre da considerare che i 130
milioni di spesa dei relativi emolumenti rimarranno a carico del bilancio dello
Stato. Rispetto alle maestranze, va poi detto che il blocco del turnover ha
ridotto, negli ultimi cinque anni, del 32 per cento il numero dei dipendenti,
passato così da 1.243 agli attuali 840. Che nel 2015 raggiungeranno la soglia
di 800 unità, con una riduzione complessiva della spesa che salirà così al 35
per cento, con un conseguente risparmio quantificabile in circa 6 milioni di
euro all’anno.
Con la riforma del Senato voluta da
Renzi verrebbero invece eliminati i 14 milioni di euro di costo per
il personale delle segreterie particolari e per le consulenze.
A conti fatti, però, come detto, le
reali economie ottenibili dalla riforma del Senato sarebbero ben
inferiori a quelle ipotizzati dal premier. Che forse, prima o poi, ci
spiegherà meglio da quali conti è partito per calcolare il famoso miliardo di
risparmi.
(http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/02/renzi-via-i-senatori-un-miliardo-di-tagli-alla-politica-ma-non-e-vero/970222/)
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