IL MONDO E' COME UNO SPECCHIO

Osserva il modo in cui reagisci di fronte agli altri. Se scopri in qualcuno una qualità che ti attrae, cerca di svilupparla in te stesso. Se invece osservi una caratteristica che non ti piace, non criticarla, ma sforzati piuttosto di cancellarla dalla tua personalità. Ricorda che il mondo, come uno specchio, si limita a restituirti il riflesso di ciò che sei.

martedì 19 luglio 2011

Il gigantesco problema dell'evasione fiscale e la mancanza di volontà politica di risolverlo

Pubblico per intero questo articolo di GIOVANNI PERAZZOLI, "Il capolinea dell’economia del consenso", apparso su Micromega, perchè è denso di concetti profondi e notizie interessanti al riguardo dell'evasione fiscale, il vero problema italiano, nonchè del livello enormemente scarso del welfare italiano rispetto a quello europeo.



Condivido quasi per intero quanto ha scritto Giorgio Cremaschi nel suo intervento su questo sito: “Lacrime e sangue, ma non per i padroni”. C’è però un punto che mi pare fuori fuoco.

Cremaschi fa bene a mettere insieme due aspetti che, nelle analisi che vengono da sinistra, capita a volte di trovare separati: giustizia sociale e legalità. È importante esigere giustizia sociale come è giusto esigere una seria lotta contro l’evasione fiscale. Mario Draghi ha detto: “O più tagli o più tasse”; tanto più sarebbe allora una soluzione la lotta all’evasione fiscale.

Sappiamo che l’evasione fiscale non è semplicemente la perdita di qualche goccia d’acqua da una conduttura non perfettamente stagna, ma un grande fiume in piena. È un sistema di potere. E per questo viene fatta apparire come un fatto marginale. Sappiamo che, con le altre varie ruberie, spariscono dalle casse dello stato oltre 400 miliardi di euro all’anno (oggi se ne cercano 80 con la finanziaria).

Chiaro, dunque, che i richiami all’unità nazionale non sono ricevibili. Se non si incide sull’evasione fiscale, i richiami all’unità si rivolgono, fin dall’inizio, solo a una parte. E anche lo scandalo dei privilegi della casta rischia di essere strumentalizzato: ben vengano i tagli ai cosiddetti “costi della politica”, ma c’è bisogno di ben altro. Senza una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, i sacrifici non faranno altro che allontanare (forse) il problema senza risolverlo, come è sempre stato. Gli inviti alla “responsabilità nazionale” non sono ricevibili quando provengono da chi ha portato il paese allo sfascio. Non sono ricevibili da parte di un’“opposizione” che ha svelato una volta di più il suo vero volto, astenendosi sull’abolizione delle Province, perché era più importante salvare la casta rispetto agli asili.

Non posso essere d’accordo con Cremaschi, però, quando non trae le necessarie conseguenze da queste premesse. Ovvero quando attribuisce all’Europa, “nostra nemica perché nemica del lavoro e del welfare state”, responsabilità che – proprio per il nostro abisso di illegalità – sono in gran parte nostre. Capisco che lo faccia Tremonti, che se l’è presa con i paesi della “prima classe”, scaricando sul nemico all’estero la responsabilità del disastro e oliando alla vecchia maniera il richiamo all’unità nazionale. Ma per chi combatte la casta è importante distinguere.

Che cosa sono quei 400 miliardi di euro di evasione fiscale e corruzione? Sono il “debito”. La parola “debito” risulta sostituibile quasi per intero con le parole “evasione” e “corruzione”. Non sono due problemi, ma lo stesso problema con due nomi diversi. Si dirà che, se ci fosse più crescita economica, l’incidenza dell’evasione e delle corruttele diminuirebbe. Direi che è tautologico; ma non si coglierebbe il carattere specifico del problema: la crescita farebbe solo da paravento al cancro nazionale.

Il problema, proprio perché è di legalità, è nostro, non dell’Europa. I mercati e le agenzie di rating fotografano quello che diciamo da anni: paese fermo, schiacciato da una montagna di debiti e dalla corruzione. La critica di sistema che si rivolge a istituzioni che condizionano la sovranità degli stati non deve trasformarsi in un arroccamento in difesa di una classe dirigente sovrana, ma corrotta. Sono due cose diverse.

Ma non c’è solo questo. Non riconoscere che i paesi dell’Europa virtuosa della “prima classe” hanno un welfare state decisamente superiore al nostro ci fa perdere un argomento decisivo che va a nostro favore. Se i primi della classe hanno uno stato sociale incommensurabilmente migliore del nostro, e hanno anche un’economia più forte della nostra, e se sono loro che dovrebbero aiutare noi, e non noi che dobbiamo aiutare loro, allora è chiaro che il nesso tra stato sociale e debito non si può porre come viene posto in Italia. Si potrebbe scoprire, approfondendo questo punto, che quella che da noi è arrivata al capolinea è un’”economia del consenso”, che ha creato clientele diffuse, distribuendo a molti un piatto di lenticchie e ad altri la possibilità di profitti faraonici; non è stata un’economia della libertà e dei diritti.

Prendere a modello questi paesi (La Germania, ma anche l’Austria, la Francia, ma anche il Belgio o l’Olanda…) darebbe dunque alla nostra lotta un argomento decisivo in più. Non c’è nessuna ragione, infatti, che stabilisca che quello che è possibile da loro non lo sia da noi.

Meglio delle percentuali di spesa qualche esempio concreto sarà più utile a farsi un’idea. In Italia le case costano un occhio, e i giovani non sanno come fare. In Olanda, lo Stato si fa carico degli interessi del mutuo, e l’acquirente solo del capitale. E comunque, in generale, l’edilizia popolare, nel nord Europa, è una cosa seria: le case sociali esistono davvero, e non sono neanche brutte. E la disoccupazione? In Germania, come in molti altri paesi, il sussidio di disoccupazione è così alto che, soprattutto per le attività meno remunerative, quasi non conviene lavorare. I tagli del Cancelliere Schröder hanno dato l’occasione in Italia di intonare l’ennesimo requiem sulla fine dello stato sociale europeo. Ma, in realtà, uno degli interventi di Schröder sullo stato sociale è stato quello che ha impedito ai disoccupati di lasciare per lunghi periodi il paese per poi magari, favoriti dal cambio, andare a prendere il sole in Messico. Ancora nel 2008 in un programma televisivo tedesco Hartaberfair (WDR 1) si calcolava che una commessa con due figli che percepisce 1538 euro netti al mese con il suo lavoro, ne avrebbe 1454 con il sistema di trasferimenti previsto dal sussidio di disoccupazione. Quando in Europa si parla di tagli al welfare state si parla soprattutto di questo: rivedere alcune regole di accesso ai sussidi, perché si ritiene che una parte della disoccupazione sia prodotta dagli stessi sussidi. Una questione che in Italia, dove la disoccupazione è solo disoccupazione, e dove non esistono sussidi come quelli europei, non fa senso comune.

Non possiamo continuare a parlare del Nord Europa e dell’Italia (o della Grecia o della Spagna…) come se fossero universi commensurabili. Non lo sono. E non perché l’Italia sarebbe povera e senza risorse, perché invece è un paese ricco. La ragione vera è che in Europa esiste una politica redistributiva, che noi non abbiamo. E non l’abbiamo perché implicherebbe un totale cambiamento del baricentro politico che ha assicurato alla casta la sopravvivenza.

Il welfare, in Germania, in Francia, in Inghilterra…, corrisponde una percentuale sull’affitto degli alloggi, integra i salari che non raggiungono una certa soglia, provvede alle assicurazioni sanitarie. Ma i dettagli sono particolarmente rivelativi. In Germania, il welfare paga il riscaldamento e persino i debiti del disoccupato; in Inghilterra, la lavanderia; in Francia il telefono (perché il disoccupato deve trovare lavoro e non si deve isolare), la ristrutturazione della casa, i quaderni dei bambini. In Germania le famiglie, indipendentemente dal loro reddito, ricevono 150 euro per ogni bambino. In Francia gli artisti, i musicisti e le compagnie teatrali, se lavorano almeno per metà dell’anno, hanno diritto a un aiuto non trascurabile per i restanti mesi dell’anno. L’elenco sarebbe piuttosto lungo.

Con gli occhi di un italiano molte cose che si vedono in Europa appaiono sconcertanti. Degli amici francesi che vivono in quella che potremmo chiamare una casa popolare hanno rischiato una sanzione quando un funzionario ha scoperto che la loro casa era troppo piccola rispetto a quella che, dopo il loro terzo bambino, avrebbero dovuto avere. Adesso la loro casa popolare guarda, sebbene di striscio, la Tour Eiffel. In Italia è impensabile.

Quando si sente parlare di “tagli” in Europa si deve contestualizzare. I tagli di Cameron in Gran Bretagna possono essere catalogati come una controffensiva neoliberale verso il welfare state. Tuttavia, bisogna ricordare che la legislazione che ha dominato per decenni nella quasi totalità dei paesi europei prevede che un disoccupato possa percepire (in teoria anche a vita) un sussidio e rifiutarsi di accettare un lavoro che non sia conforme alla sua qualifica. La riforma di Cameron, come molte altre che vengono apprestate in Europa, vanno ad incidere su questo punto. Il disoccupato deve accettare un lavoro che gli venga propostoe che sia “ragionevolmente” vicino alla sua qualifica, anche se non coincidente con essa. Se non lo accetta la prima volta, rischia di perdere il sussidio per tre mesi; se si rifiuta per una seconda volta, rischia di perderlo per sei mesi; se lo rifiuta per una terza volta, lo perde per tre anni. Naturalmente, però, se il Job Center (l’ufficio di collocamento) non gli trova un lavoro, il disoccupato continua a percepire il sussidio. Non sfuggirà il fatto che in Italia l’impianto stesso della riforma è inaudita: se non riusciamo a trovarti un lavoro, ti continuiamo ad assicurare un reddito. Però se te lo troviamo, ragionevolmente conforme alla tua qualifica, e tu lo rifiuti per tre volte, allora per tre anni ti arrangi. In questo video (http://www.guardian.co.uk/politics/video/2011/feb/17/david-cameron-welfare-reform-bill-video) potete ascoltare lo stesso Cameron esporre i suoi tagli al welfare state.

Ergo, qui bisogna guardarsi negli occhi e dirsi una buona volta: ma che cosa ci hanno raccontato per decenni? In Italia per trovare un lavoro umile e negletto, magari in nero, bisogna raccomandarsi a tutti i santi. Si noterà, by the way, che, prima di Cameron, dunque anche durante il regno di Margaret Thatcher, il sistema era molto più benevolo: il disoccupato doveva solo dimostrare di cercare lavoro, poi poteva restare a vita con il sussidio. Il che spero dia la misura di quanto stiamo male noi. L’inviato in Italia della Süddeutsche Zeitung, Dietmar Polaczek, alla domanda di un giornalista tedesco che gli chiedeva se in l’Italia si avrà una seconda Grecia ha risposto di no perché “gli italiani sono molto più abituati a soffrire”.

Ora, non è questo il luogo per discutere i vantaggi e gli svantaggi di un tale sistema. Resta il fatto che il riferimento all’Europa andrebbe, in Italia, rovesciato di segno. Anche perché indicare nell’Europa l’origine di direttive feroci e antisociali è da sempre il paravento della casta. Faccio un altro esempio.

Ad un certo punto, circa quindici anni fa, si è cominciato di colpo a scrivere che le università italiane erano – fatto inaudito – le più economiche d’Europa. Troppo economiche. Fatta questa scoperta, anche da sinistra, alcuni si sono sentiti interrogati dal problema e hanno preso a teorizzare sui giornali che le università a prezzi popolari fossero ingiuste. L’argomento utilizzato era particolarmente capzioso, ma a suo modo geniale. Si diceva, lo ricorderete, che, poiché all’università ci vanno solo i figli dei professionisti, e poiché molti di questi sono anche evasori fiscali, ergo è ingiusto che chi paga le tasse debba pagare l’università ai figli degli evasori fiscali (“se la paghino loro l’università!”). Davanti a un argomento del genere (ripetuto in forme lievemente diverse anche oggi), ci si sarebbe immaginati il rapido internamento di chi l’aveva prodotto. Invece, l’assurdo fu preso sul serio. Si certificò questa anomalia italiana, questa ingiustizia conclamata, che certo non poteva continuare: università aperte anche ai figli di quelli che pagano le tasse. Ma dove siamo arrivati! Pazzesco, uno scandalo. E che cosa si disse? Naturalmente, si disse che bisognava adeguarci all’Europa, dove, come tutti sanno, bisogna svenarsi per andare all’università, e dove coloro che pagano le tasse non ci pensano nemmeno a far studiare i figli.

La realtà tragicomica è che però all’epoca, in effetti, in Italia si pagava poco per andare all’università, ma in Europa non si pagava proprio niente: le università erano gratuite. Anche Oxford, anche Cambridge. Solo più di dieci anni dopo, e con molti tormenti, la Germania e l’Inghilterra hanno cambiato registro, e comunque in Germania si paga relativamente poco, e in Inghilterra esiste – con la riforma di Tony Blair – un sistema di prestiti d’onore che sono restituibili in misura del reddito che si ha quando si lavora. Quest’ultima soluzione è stata molto criticata in Italia, ma se articolata in modo equo e indirizzata ai redditi alti, ha un suo lato di ragionevolezza. Un avvocato con un certo reddito non è proprio insensato che, in misura proporzionata, rifonda lo stato che gli ha dato la buona formazione necessaria alla sua professione. Ci si è scandalizzati perché Obama aveva finito di pagare i debiti per i suoi studi poco prima di diventare Presidente degli Stati Uniti. Mi scandalizzano di più le esose prestazioni professionali – in Italia spesso più care che nel resto d’Europa – di chi ha studiato a spese del contribuente.

Certo, è innegabile che molte cose stiano cambiando. Ma il punto di partenza dei vari cambiamenti in Europa è molto, ma molto, più in alto rispetto alla realtà italiana. Il welfare state medio europeo di oggi, con tutte le sue riforme neoliberiste, è per l’Italia comunque equivalente alla Rivoluzione d’Ottobre.

Torno dunque a Cremaschi e a quello che non condivido dell’impostazione del suo intervento. Dalla premessa della necessità di tenere insieme giustizia sociale e legalità, dalla sacrosanta premessa dell’ingiustizia orribilmente classista che sembra immemore della colossale evasione fiscale e delle varie ruberie, oltre che dei privilegi della casta, Cremaschi dovrebbe trarre una conseguenza diversa da quella che ne ha tratto. Ovvero: perché dovrebbero essere i paesi europei della “prima classe” a pagare per la nostra classe dirigente corrotta? Io, se fossi uno svedese, non lo farei.

Perché i paesi della “prima classe” dovrebbero dare ossigeno inflazionistico alle caste di cui noi non riusciamo o non sappiamo liberarci? E in ogni caso, più ossigeno aiuterebbe un cambiamento in Italia, oppure perpetuerebbe le caste, rimandando solo a domani la bancarotta? L’idea di togliere potere al Fondo monetario internazionale è ambiziosa e non priva di argomenti importanti: ma all’estero, quando viene da un paese che non è stato in grado di liberarsi per vent’anni da Berlusconi e dei suoi amici diffusi, e che non riesce neanche a far pagare le tasse ai dentisti, può apparire patetica.

Si può criticare il patto di stabilità per il fatto di essere l’espressione di una politica tanto virtuosa quanto astratta; ma non lo si può fare quando il nostro debito è espressione di un’“economia del consenso”, con la quale la casta ha garantito se stessa e i vari potentati. Sono due ordini di problemi completamente diversi.

Bisogna notare che, mentre in Italia il nesso tra debito ed evasione (e suo significato politico) non è chiaramente stabilito, all’estero è vero il contrario. SuDer Spiegel non si dice che l’Italia deve svendere il Colosseo, o applicare alla lettera le ricette dei Chicago Boys; non si legge che o si aumentano i tagli, oppure si devono introdurre nuove tasse. Nell’intervista a un esperto di finanza, Hans-Peter Burghof, alla precisa domanda del giornalista: Was muss Italien konkret tun? (Che cosa dovrebbe fare in concreto l’Italia?) si legge: dovrebbe risparmiare e incrementare in modo più coerente ed efficace una politica contro l’evasione fiscale (die Steuerhinterziehung muss wirksamer bekämpft werden), oltre che rivedere una politica industriale che è andata a rotoli.

Sull’austriaca Wiener Zeitung non si trova un inno all’Europa dei banchieri, bensì un altro esperto che ricorda l’ovvio: ovvero che il problema del debito italiano non ha nulla a che fare con la situazione della Grecia, della Spagna e dell’Irlanda, perché è un problema vecchio di almeno 15 anni. E alla domanda del giornalista che ricorda che l’evasione fiscale sottrae al fisco italiano la sconcertante cifra di 420 miliardi di euro all’anno (lo sanno), la risposta è la seguente: “L’evasione fiscale è un gigantesco problema, ma non c’è alcuna volontà politica di risolverlo. Eppure basterebbe che le imprese, come avviene negli USA e in Gran Bretagna, utilizzassero le carte di credito per rendere i trasferimenti di denaro trasparenti”.

Alen Mattich su The Wall Street Journal si chiede perché l’Italia viene attaccata dalla speculazione. E risponde che questo succede perché l’economia italiana va allo sbando da anni, e ogni misura di austerità è destinata al fallimento visto losport nazionale dell’evasione fiscale e il peso politico delle burocrazie.

A ulteriore dimostrazione che in Europa e nel mondo si rendono perfettamente conto di quale sia la situazione, basterebbe l’intervista lucida, semplice e drammatica che ha rilasciato a un sito tedesco l’inviato in Italia dellaSüddeutsche Zeitung, Dietmar Polaczek.

Berlusconi? Sposta il problema della montagna di debiti al prossimo governo, così la gente attribuirà la colpa alla sinistra; della crisi del debito non gli importa nulla, come nulla gli importa della disoccupazione giovanile: gli importa solo dei suoi interessi. L’Italia? Non uscirà dalla crisi del debito. La mafia aumenterà il suo potere. Aumenteranno il lavoro nero e l’evasione fiscale. E la corruzione? Nel ceto politico italiano è onnipresente, i politici italiani utilizzano senza scrupoli i loro privilegi. Le misure di risparmio? Toccano di fatto solo i poveri.

Parole semplici per una realtà piuttosto semplice, che non lascia molto all’immaginazione teoretica.
L’inviato della Süddeutsche Zeitung continua dicendo che ci sarà invece una nuova emigrazione (verso la Germania e il nord Europa). Lasceranno il paese in primo luogo i giovani, che non hanno nulla da perdere e i più istruiti, che in altri paesi hanno maggiori possibilità. Resteranno quelli che non hanno possibilità di competere.

In conclusione, nella crisi economica attuale bisogna distinguere le responsabilità del neoliberalismo e le conseguenze del suo fallimento dalle responsabilità italiane. Non dobbiamo permettere che le responsabilità della nostra classe dirigente si nascondano dietro il paravento della crisi internazionale. Naturalmente le due questioni possono anche sovrapporsi, per alcuni o per molti aspetti. Ma è un altro discorso.

Capisco, invece, perché la lettura di una parte della sinistra eviti di porre l’accento sulla “questione morale” italiana: questa lettura intende ritrovare il colpevole nei grandi scenari dell’economia globalizzata. Essa avverte che, se il colpevole della nostra crisi è essenzialmente interno, se nasce da un sistema di potere provinciale e banalmente corrotto, allora anche la spiegazione della crisi si provincializza, si circoscrive alla banale mazzetta, al banale potere grassoccio e furbastro, e resta lontana dalle grandi spiegazioni globali. Sentendosi presa tra l’alternativa di assolvere/incolpare gli uni o gli altri, finisce per incolpare, naturalmente, il suo nemico ideologico più strutturale: il neoliberalismo e per assolvere il nemico accidentale, la corruzione. Che le due questioni sono distinte, non significa che una sia vera mentre l’altra è falsa, ma solo che si devono distinguere.

Attribuire all’Europa delle responsabilità che sono in gran parte nostre offre un salvagente (a proposito di Titanic) a quella stessa casta che si sta rendendo responsabile della fine dell’euro e del tramonto del sogno dell’unità europea. Qui torno a seguire Cremaschi: liberiamoci (prima) della nostra classe dirigente.

Giovanni Perazzoli

(18 luglio 2011)

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