Stiamo parlando dell'Islanda: un paese con la democrazia probabilmente più antica del mondo, le cui origini vanno indietro all'anno 930 e che ha occupato il primo posto nel rapporto del ONU sull'indice dello sviluppo umano 2007/2008.
Mentre è in atto una manovra per “occidentalizzare” le rivolte nordafricane (facendo credere che la democrazia occidentale sia la loro aspirazione massima o decantando il ruolo dei social network occidentali per sminuire la potenza di strumenti autoctoni come Al Jazeera e Al Arabiya, viceversa grandi protagonisti per la circolazione delle informazioni anti-sistema), all’opposto si cerca di “de-occidentalizzare” la rivolta in Islanda, nel tentativo di isolare il virus della sacrosanta insurrezione popolare contro il potere finanziario globale ed evitare che si estenda, anche minimamente, oltre i suoi confini.
Il moderno Stato islandese, per anni in cima alla classifica dell’astruso Human Development Index dell’Onu, che lo descriveva come il più florido del pianeta, stranamente diventa ora per i media "una piccolissima nazione di poche centinaia di migliaia di pescatori accampati su uno scoglio remoto e gelido ai confini del mondo".
Insomma, tutto ad un tratto si può cancellare facilmente l’Islanda dalla mappa dell’Europa, come esortano gli stessi illustri commentatori dei quotidiani finanziari che fino a pochissimi anni fa ne tessevano le lodi facendone "un esempio virtuoso di neoliberismo realizzato in cui l’'effervescenza' finanziaria conviveva e permetteva un aumento generalizzato del benessere".
Breve resoconto degli avvenimenti islandesi
Alla favola del “lupo buono” gli islandesi credono fino a quando nel 2008 il castello della speculazione finanziaria crolla in tutto il mondo.
L’Islanda è uno dei paesi più drammaticamente coinvolti: la borsa locale perde il 74 per cento, la corona islandese precipita sui mercati valutari e il paese finisce letteralmente in bancarotta.
L’IceSave, una banca on line islandese che ha attirato diversi miliardi di euro dall’estero - qualcosa come dieci volte il PIL nazionale! - grazie ai suoi elevati tassi di interesse, fallisce. L’Inghilterra, seguita poi dall’Olanda, decide così di indennizzare i 300 mila clienti britannici e i 910 milioni di euro investiti da amministrazioni locali del Regno Unito, presentando poi il conto al governo islandese.
Per cercare di mettere una “pezza” sulla voragine finanziaria, il governo del conservatore Geir Hilmar Haarde decide, nell’autunno del 2008, di nazionalizzare le banche più importanti del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir.
Una soluzione “sovietica” finalizzata a garantire la nota "socializzazione delle perdite", uno strumento recentemente usato da tutti gli stati in crisi, USA compresi: cosa c'è di meglio che risanare le perdite speculative delle banche con i soldi dei contribuenti, gli stessi che dalle banche vengono pure strozzati?
"Cornuti e mazziati" direbbero a Napoli...
La mistificazione e l’ipocrisia degli ideologi del capitalismo si mostrano in tutta la loro sfacciataggine anche in Islanda.
Succede però che qui il meccanismo si inceppa per l’intervento di una variabile imprevista: migliaia di cittadini non ci stanno, scendono in piazza e assediano il parlamento per alcune settimane fino a costringere il primo ministro a rassegnare le dimissioni nel gennaio del 2009.
Nelle elezioni anticipate di aprile, ottiene la vittoria una coalizione di sinistra guidata da Jóhanna Sigurardóttir. Il nuovo governo vara una legge per la restituzione del debito di tre miliardi a Gran Bretagna e Olanda, somma che dovranno pagare tutte le famiglie islandesi “in comode rate” da un centinaio di euro a persona per i prossimi 15 anni, al 5,5 per cento di interesse!
Ancora gli islandesi non ci stanno e scendono di nuovo in piazza fino a quando nel gennaio 2010 il presidente della Repubblica convoca una prima consultazione referendaria dove il “no” al pagamento del debito incassa il 93 per cento dei voti!
Il governo socialdemocratico sceglie allora di recuperare il terreno perduto attraverso una strategia diversificata in cui si identificano 4 strade principali.
In primo luogo viene avviato un processo di autoriforma con l’obiettivo di ricostruire la credibilità delle istituzioni politiche, credibilità spazzata via dalla crisi finanziaria: viene convocata un’Assemblea Costituente per riscrivere la Costituzione, per ricostruire il tessuto, ormai interrotto, tra le istituzioni e le nuove istanze dei cittadini disillusi e non più disposti ad accettare le leggi precedenti.
Il 27 novembre 2010, tra le 522 candidature popolari, vengono eletti 25 cittadini costituenti senza alcun collegamento politico e alcun precedente incarico elettivo.
In secondo luogo il parlamento approva all’unanimità, il 26 giugno 2010, l’Icelandic Modern Media Initiative, la cosiddetta “legge sbavaglio” per la protezione della libertà di informazione che di fatto trasforma l’Islanda in un rifugio sicuro per il giornalismo investigativo e la libertà di informazione, una sorta di “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli Internet provider.
In terzo luogo, il governo cerca di raffreddare la rabbia sociale attraverso l’individuazione della responsabilità di alcuni personaggi chiave della finanza locale: viene aperta una inchiesta parlamentare e spiccati alcuni ordini di cattura internazionale, come nel caso del presidente della Landsbanki Sigurour Einarsson, attualmente ricercato dall’Interpool.
Sul piano economico, infine, si gioca la partita più importante: il governo decide di approntare un piano di rientro più soft, che viene presentato come una conquista della mobilitazione popolare, essendo molto più ridotto in termini quantitativi (da tre miliardi si passa a 440 milioni di euro) e molto dilazionato sul lungo periodo (il pagamento è rateizzato fino al 2046).
Il movimento di protesta a questo punto si divide tra chi lo ritiene comunque un buon compromesso e chi invece sospetta si tratti in realtà di un accordo-ponte, ma soprattutto si rifiuta di far ricadere sulle spalle delle generazioni future le porcherie dei responsabili della crisi finanziaria.
In parlamento, l’accordo viene sottoscritto dalla quasi totalità delle forze politiche, ma i cittadini islandesi non sono ancora d'accordo: l’assedio a oltranza del Parlamento e le 43 mila firme raccolte in pochi giorni costringono nuovamente il Presidente della Repubblica a sottoporre la legge a consultazione popolare: il 9 aprile 2011, la maggioranza degli islandesi, il 58 per cento, vota “no” all’accordo.
I governi stranieri protestano, si minaccia il blocco dell’ingresso nell’Unione europea, il Fondo Monetario Internazionale congela gli aiuti economici, le agenzie di rating paventano ulteriori retrocessioni, i media finanziari internazionali si interrogano su “fino a che punto può l’indignazione popolare mettere in discussione i principi basilari dell’economia capitalistica”.
Insomma, gli islandesi sono passati in pochi mesi dalla fiducia cieca nel neoliberismo a un processo di riappropriazione dal basso delle istituzioni pubbliche: verrebbe quasi da dire "però questi Islandesi, che palle che hanno!".
Hanno riscoperto il piacere della democrazia e non sembrano disposti a rimetterla nelle mani dei pochi e soliti noti. Un insegnamento non da poco, che per questo viene completamente oscurato dai media nostrani.
In Islanda si è aperto uno scontro diretto, senza mediazioni, tra democrazia popolare ed economia liberista.
Delle rivolte nei paesi arabi si può parlare perchè gli obbiettivi della rivolta popolare vengono manipolati per omologare i loro sistemi politici a quelli della democrazia occidentale strettamente legata al mondo finanziario, mentre della rivolta islandese non si deve sapere nulla, perchè essa si pone oltre questi obsoleti strumenti democratici asserviti, e va oltre al metodo occidentale, solo apparentemente garantista, di limitazione legalizzata della libertà degli individui.
Non c’è più solo una prima ministra dichiaratamente lesbica e una maggioranza parlamentare di sesso femminile a indicare l’abbattimento di alcune barriere invisibili nella dimensione pubblica, non c’è solo l’eccentrico comico “anarco-surrealista” Jón Gnarr (una sorta di Beppe Grillo islandese), eletto sindaco della capitale nel maggio 2010; non c’è solo la radicalizzazione dei principi antimilitaristi (l’Islanda è uno dei pochissimi paesi al mondo a non disporre di un esercito) e ambientalisti (la legge islandese impone che il 99,9 per cento dell’energia provenga da fonti rinnovabili).
La potenza costituente della rivoluzione islandese mette in discussione la relazione tra politica ed economia nell’era della globalizzazione neoliberista e crea un nuovo modello di partecipazione diretta del popolo alledecisioni che lo riguardano.
A ben vedere non si tratta di una rivoluzione ma di una "EVOLUZIONE", cosa ben più pericolosa in quanto raggiunta in modo pacifico e in grado di durare nel tempo. Questa è la cosa che maggiormente spaventa il sistema economico mondiale!
Gli Islandesi sono un popolo che già nel lontano passato si distinse come modello per l'occidente: nel 930 si iniziarono a sperimentare in Islanda alcuni presupposti normativi che solo molti secoli dopo sarebbero divenuti il patrimonio comune delle democrazie liberali europee: oggi come ieri dovremmo trovare il modo per diffondere il nuovo modello che il suo popolo propone dopo anni di sfruttamento e di ipocrita diffusione di un modello economico pericoloso e controproducente.
Mai come oggi i cittadini sentono il bisogno di affrancarsi da questo bieco sfruttamento dei pochi privilegiati sui molti tartassati, ottenuto tramite la mistificazione e il controllo dell'informazione.
Varrebbe la pena diffondere il più possibile gli ultimi anni della storia islandese come grande insegnamento per tutta l'umanità, soprattutto quella occidentale e del nord del mondo.
L'unione fa la forza e ogni popolo ha il governo che si merita: sforziamoci per meritarci qualcosa di meglio!
Per approfondire:
Fonti:
www.controlacrisi.org:
In Islanda da due anni è in corso una rivoluzione ma nessuno ne parla
www.anarkismo.net:
E' in corso da due anni una rivoluzione in Europa, ma nessuno ne parla
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